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 L'ARCHITETTO (E IL DESIGNER) DEV'ESSERE TUTTOLOGO
 Intervista a Massimo Mariani


Tra i fondatori del Bolidismo, Massimo Mariani è oggi apprezzato autore di originali progetti di design, interior design ed architettura. Brillante allievo di Leonardo Savioli e Remo Buti, ha conservato nel tempo una fresca ed eclettica creatività che caratterizza sia le prime produzioni di mobili d'avanguardia – come Studio Stilema con Alberto Casciani –, sia gli oggetti bolidisti degli anni '80, sia le personalissime case private ed i progetti ideati per sedi e filiali toscane del Credito Cooperativo. Attualmente sta realizzando importanti lavori in provincia di Firenze – un edificio polifunzionale a Fucecchio, il Museo di Benozzo Gozzoli a Castelfiorentino – e a Ponte Buggianese (PT) – una scuola, una biblioteca e l'ampliamento del cimitero.

Innanzitutto una curiosità. All'epoca eri molto giovane, ma un'icona degli anni sessanta la Super Onda di Archizoom nasce a Pistoia, dove sei nato, in una mostra di giovani neolaureati dedicata alla Superarchitettura. In quel periodo assolutamente ricco di fermenti e tensioni un giovane della provincia come viveva la propria crescita culturale?
Nel 1966 avevo 15 anni e frequentavo le scuole superiori a Pistoia. Credo anche di averla vista la mostra Superarchitettura alla Galleria Jolly, ma i miei interessi erano più rivolti alla pittura. Dello stesso anno ricordo invece benissimo, una mostra di Umberto Buscioni, (della scuola di Pistoia: Barni-Buscioni-Ruffi-Natalini) alla Galleria Flori a Montecatini; le cravatte, le moto, le camicie e le scarpe di Umberto – che ho conosciuto molti anni dopo –, mi colpirono molto.
Vivevo la mia giovinezza con estrema leggerezza, sentivo gli echi della contestazione, e qualcosa arrivava anche da noi. Mi ricordo che verso i 17 anni avevo una fidanzata sveglia – molto più sveglia di me –, andavamo a ballare a Firenze con l'autostop in quel mitico locale che era lo Space-Electronic.
Solo più tardi ho saputo dei legami che questo locale aveva con l'architettura radicale.

Cosa ha influenzato la tua scelta negli studi?
Nel '69 ho finito le superiori e la scelta della facoltà di architettura è stata molto combattuta. Mi sono iscritto, ma a metà del primo anno volevo passare all'accademia delle belle arti. Già alle superiori volevo fare la scuola d'arte, ma all'epoca i genitori me lo impedirono.

Per molti professionisti, il periodo universitario e i primi anni dopo la laurea sono un mix di attività professionale, ricerca ed assistentato. Hai qualche ricordo particolare?
Fino al '74 per me la facoltà era priva di interesse. Alla confusione interna che vi regnava, si aggiungeva il fatto che non trovavo negli insegnamenti quello che cercavo – e allora dipingevo molto.
Alla fine del '74 mi sono iscritto al corso di Leonardo Savioli, ho conosciuto Remo Buti e le cose sono cambiate. Finalmente avevo trovato figure con le quali avevo affinità elettive.
All'esame di arredamento prendemmo 30 e lode e Leonardo Savioli (a quel tempo usava così) ci chiese se volevamo fare la tesi con lui. Successivamente sono stato assistente per molti anni di Remo Buti, ed è stata un'esperienza davvero speciale. Nel '77 mi sono laureato con una tesi che aveva per tema Centro di Arti e Mestieri nel padule di Fucecchio e prevedeva il recupero di un contenitore di archeologia industriale degli anni '30.

Abbastanza presto – come Stilema, insieme ad Alberto Casciani – hai realizzato produzioni a metà tra arte e design. Come ricordi questa prima esperienza di ricerca linguistica e quanto di questa ricerca si è poi riversata nelle produzioni successive?
Ho conosciuto Alberto Casciani nello stesso anno – il 1977. Qualche anno dopo abbiamo fondato lo Studio Stilema, per progettare e produrre oggetti e mobili di avanguardia.
In quegli anni Alberto aveva un negozio di mobili proprio in centro a Montecatini ed era un grande conoscitore di design ed arti figurative – oltre ad essere un grande artigiano ed artista.
Siamo stati insieme dal 1980 all'84, poi Alberto ha concentrato le proprie energie nel restauro diventando uno dei maggiori esperti di restauro della pietra in Italia.
La prima esperienza di Stilema fu la produzione di una collezione di oggetti – pezzi unici – che ci impegnò per un anno e si concluse con una mostra dal titolo Oggetti e Citanti nel dicembre del 1981 nei locali del nostro studio a Montecatini.
Lo studio si chiamò Stilema perché lavoravamo su stilemi altrui caricandoli di nuovi usi e significati.
Anche la mostra Oggetti e Citanti si riferiva a progetti noti di autori contemporanei, come Andrea Branzi, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Hans Hollein, Salvo, Mario Radice, ... Si trattava di un'operazione concettuale di matrice duchampiana, abbastanza rigida ma anche ironica. In un momento di esuberanza formale, a noi interessava più l'idea che l'esercizio formale.
Nel tempo, una certa rigidità di metodo si è un po' allentata – forse in meglio –, ma alla base di un progetto ci deve essere sempre l'idea. E credo che questa esperienza mi abbia segnato in maniera profonda. Sono ossessionato dal metodo e voglio che ogni progetto abbia un senso. Credo di essermi portato dietro questi contenuti per tutti questi anni fino ad oggi, passando anche per il Bolidismo.

Per la generazione degli studi Archizoom e Superstudio l'innovazione linguistica della Pop Art è stata un traino formidabile per rompere con il passato e creare un'identità a neonate formazioni magari ancora poco attrezzate culturalmente, ma molto decise ad emergere sia nel campo del design che in quello dell'architettura. Mutatis mutandis il linguaggio fresco e atipico dei Comics ha svolto una funzione di coagulo per te e gli altri fondatori del movimento Bolidista?
In parte, ma non in modo determinante. Anche perché il «coagulo» bolidista è stato realmente breve. In una famosa foto uscita su Epoca nel giugno '87 – in cui veniva presentato il Bolidismo – io avevo in mano una Lampada grassa, ai piedi avevo delle Lampade insetto della Valigia del Naturalista, Stefano Giovannoni e Guido Venturini mostravano una serie di oggetti ricoperti con una schiuma colorata, Pierangiolo Caramia aveva dei vasi a forma di "cappello del vescovo", Studio Electra presentava alcuni oggetti scultorei, Massimo Iosa Ghini e Maurizio Corrado una sedia per Memphis che richiamava la velocità – come del resto il logo del gruppo disegnato da Maurizio Castelvetro. Nel complesso le iconografie erano abbastanza eterogenee, ma tutte sorprendenti... Il tempo di questo «scatto» e il Bolidismo se ne era già andato, veloce come il vento.

Tra i referenti e suggestioni culturali del movimento Bolidista, forse per la prima volta in maniera fresca ed innocente, ha saputo far riemergere la forza figurativa di una avanguardia storica - il Futurismo - da molti considerata il referente culturale più prossimo del design Italiano. E' nel Manifesto del 1916 che si afferma infatti che l'arte del futuro non potrà sfuggire al confronto - e alla contaminazione - con i mezzi e le tecniche della produzione seriale. Eppure, a poco più di vent'anni, sia tu che Massimo Iosa Ghini, oggi, vi segnalate per una discreta produzione di architettura e di interior design - discipline che, tra l'altro, hanno molto più a che fare con l'unicum che con la serie...
E' vero. Negli anni realizzato più architettura che design. Ho progettato una serie di banche o delle banche in serie; e forse è qui la mia serialità. Una serialità differente però, dove la banca è presa come base su cui fare un «make-up», una operazione analoga concettualmente a Make-up 100% di Alessandro Mendini.
Anzi, non voglio nemmeno chiamarle ancora banche. Le chiamerò comunicazione, allestimenti, luoghi dove la comunicazione domina sulla funzione...
Le nominerò con le mie iniziali, un numero progressivo, la data e il luogo, come fa Vanessa Beecroft con le sue performances.
Ognuna di esse rappresenta un evento dettato dal luogo dove sono congelate le mie emozioni.

Il ricorso a riferimenti figurativi domestici è una traccia costante dei lavori di architettura realizzati da designer – ad es. ad Empoli e Montelupo Fiorentino le case di Ettore Sottsass, o quelle londinesi di Ron Arad. Spesso non si tratta di richiami letterali ad oggetti, ma della ricerca di un'impronta figurativa accessibile. Un'icona che mnemonicamente ed emotivamente già ci appartenga; un'entità con la quale potersi baloccare, di cui provare un'esperienza intima, quasi tattile. Non a caso uno dei tuoi temi è la mano...
E' probabile che chi progetta gli oggetti, finisce per carpire l'essenza delle cose, certi elementi figurativi ne richiamano altri psico-sensoriali.
Se accarezzo un tronco di legno levigato dal mare o un ciottolo di fiume apprezzo le sue rotondità e morbidezze, li sento vivi, come se toccassi un cane o un gatto. Se accarezzo l'acciaio inox lo sento freddo, ma mi specchio dentro come Narciso nello stagno.
Con la mano ho lavorato per un certo periodo. Ho voluto fare un esperimento con un unico segno iconografico da usare, sia per l'architettura che per il design. Ho scelto la mano perché si presta a più cose. Si può stare con la «mano nella mano» oppure si può stare con le «mani in mano».
Ho progettato un corrimano con una mano e si chiama Corri-mano. Una pentola in ceramica ricoperta di mani l'ho chiamata Attenti alle mani. Un edificio per un concorso in Spagna ricoperto di mani per simulare dei saluti, l'ho chiamato Palazzo del Benvenuto...

Tattilità che talvolta è frutto di suggestione e memoria. Riferendoti della Nuova sede di rappresentanza Banca di Credito Cooperativo a Castagneto Carducci, tu stesso parli di «morbide forme di sabbia del colorato secchiello di un bambino...»
La sede per la banca di Donoratico è ancora un'altra cosa. Rappresenta, secondo me, l'esempio ben riuscito di un mio modo di integrare l'architettura con l'interior design. All'esterno si presenta come un fortilizio, con gli angoli arrotondati. Morbido, quasi gommoso, ricoperto di pietra arenaria molto simile alla sabbia. Sembra una forma fatta con il secchiello di un bambino mentre gioca sulla spiaggia. All'interno è una sorpresa. Il piano terra è tutto quanto rivestito di mosaico azzurro – sia il pavimento che le pareti – e sembra di essere in una vasca d'acqua. Grazie alle dimensioni contenute tutto si può toccare, è a portata di mano. Al piano superiore gli uffici sono sistemati intorno ad un pozzo. Guardi in alto e vedi il cielo, guardi in basso e vedi dei pesci rossi disegnati nel mosaico che vanno verso il centro. Viene da chiederti… Ma quei pesci siamo noi?

Nella recente Banca di Credito Cooperativo di Fornacette a La Fontina (PI) emerge appieno questa tua vena deliziosamente ironica presente nei suoi lavori sin da Hans – improbabile seduta della serie degli Oggetti e Citanti. Enormi vasi – Vas-one di Luisa Bocchietto e Top-pot di Ron Arad – che disposti in alto negli interni ricreano un inconsueto microcosmo bancario dove ancora entrano in gioco scale rovesciate e rovesciamenti reali...
Si, è come dicevo prima. In MM48 del 2003 a La Fontina, il rovesciamento dei vasi corrisponde un rovesciamento di significati. Ribaltamenti e rivoluzioni che si mescolano poi con le performances della gente, nelle operazioni bancarie.
Ma siamo noi i migliori lettori di noi stessi?

Altro tema che caratterizza fortemente il tuo lavoro è il colore. Soprattutto per gli interni: tonalità pastello nella Banca di Credito Cooperativo a Montelupo Fiorentino, colori primari in quella a Poggibonsi, cromie acide per la sede di Pontedera...
Il colore è un progetto. Lo uso, è vero, soprattutto per gli interni, perché credo che vada scoperto lentamente, non svelato. Preferisco si trovi quando non ce lo aspettiamo, ed è per questo poi che ci carica di energia.

Quanto e come incide nel progetto di interni la tipologia della committenza?
Negli interni, il progetto di una casa credo sia il più difficile.
La casa è come un vestito, deve calzare alla perfezione, e se qualcuno vuole lo stilista deve cercare quello giusto, altrimenti è meglio che faccia da solo.

Alla fine del 2004, mentre a Medesign, in corso a Genova, Vico Magistretti sosteneva di non sapere se fosse completamente giusta una mostra basata su "un design legato al mare, alla navigazione, un design cioè legato a fatti unici e raramente ripetibili in grande numero, che è invece la principale caratteristica del design", a Mestre un enfant prodige del design ed un maestro dell'architettura del secolo scorso era in mostra al Centro Candiani. Marcel Breuer. Design and Architecture ha presentato al pubblico una figura letteralmente bifronte. Se ne possono anche apprezzare, tra l'altro, aspetti forse non del tutto esplorati come, ad esempio, lo studio costante di nuove variazioni geometriche da utilizzare nei prefabbricati per le facciate. Prodotti in serie nei quali si rispettava uno dei principi breueriani più importanti: l'architettura deve creare forme capaci di sostenere la ripetizione. Aggiungo che con il suo lavoro credo che Enzo Mari abbia coltivato un'ossessione assai simile. E' forse il costante rapporto con l'archetipo che lega le pratiche dell'architettura e del design?
Si torna ancora a parlare di design a tiratura limitata o in gran numero. Magistretti, non poteva non schierarsi che per la seconda ipotesi, ma credo possano coesistere entrambi.
Marcel Breuer è una della storiche figure ibride per eccellenza e indubbiamente se guardo la facciata dormitorio della St. John's University (1965-'67) la trovo ancora attualissima. Vi riconosco una perfetta integrazione tra arte, design e architettura. Il gioco di luce che ricrea nei pannelli in rilievo mi fa venire in mente un quadro optical.
Il tema della prefabbricazione lo trovo ancora molto interessante, basta guardare la bellissima e recente opera di Steven Holl, che è la Residenza Universitaria Simmons Hall, MIT Cambridge, Massachusetts 2002.
In Italia purtroppo, la prefabbricazione di qualità è ancora tutta da scoprire.
L'unico triste esempio che ne abbiamo è quello legato alle aree industriali, che in linea generale mancano di un progetto, o quanto meno il progetto è demandato alle ditte produttrici di prefabbricati. Questo è un territorio ancora vergine, dove secondo me c'è ancora molto da fare.
Proprio di recente, con lo studio ci siamo dedicati ad un progetto a basso costo in prefabbricati per un'area mista (artigianale, industriale, commerciale). Con un unico segno, che cambia solo nelle dimensioni, siamo riusciti a progettare la massa architettonica, la texture delle finestre e il sistema degli ingressi.

Tornando al Bolidismo è pur vero che, anche se durato il tempo di una foto, il segno bolidista ha significato molto per aziende forniture di riferimento come, ad esempio, Moroso. I primissimi lavori di Iosa Ghini marcano nettamente il passaggio generazionale di direzione da Agostino Moroso alla figlia Patrizia. E Moroso oggi significa Arad, Gricic, Massaud, Dixon, insomma una grande contaminazione tra arte e furniture...
Amo le figure ibride, le contaminazioni, e quei lavori di Massimo sembravano usciti dai suoi fumetti. Lo stesso è successo con le sedie-scultura in metallo di Arad, con una operazione alchemica sono riusciti a trasformarle in morbide poltrone domestiche. Questo succede quando da parte delle aziende c'è la volontà di rinnovarsi, di rischiare e di investire e quando si crede nei designer. Quando ognuno fa il suo mestiere, il designer fa il designer e le aziende mettono a disposizione le loro ricerche, le tecnologie e si impegnano affinché le idee si realizzino. Cose rarissime. Sul mercato si trovano invece tantissimi prodotti molti dei quali sono cloni.

Qualche tempo fa mi accennasti ad un tuo mancato incontro con un imprenditore illuminato, alla necessità di difendere un'idea progettuale per non perderne il valore, al rifiuto di continuare l'attività di product designer anche per l'eccessiva quota di «conciliazione» con l'impresa che ogni volta ti veniva prospettata. Guardando da fuori il campo della architettura sembra ancora più rigidamente vincolato...
Se devo progettare degli oggetti, per i quali, arrivati in fondo, ho un rifiuto fisico, allora è meglio non farlo.
Gli oggetti sono delle presenze importanti, fanno parte della tua vita, se sono ben fatti rilasciano energia positiva, altrimenti possono farti male. Prima di tutto devono trasmettere l'amore di chi li ha progettati, altrimenti è meglio lasciar perdere. Il mondo è troppo pieno.
L'architettura in Italia è un campo molto difficile e su questo c'è un dibattito continuo. Devo dire però che negli ultimi 10 anni qualche cosa è cambiato. Qualche nuova architettura sta nascendo e si vede qualche under 40 che ha realizzato almeno un'opera.
Poi... magari, in Italia si fa un'architettura estremamente triste, si vara il condono edilizio e nello stesso momento si boccia Arata Isozaki a Firenze, ma questo è un altro discorso.
Personalmente mi ritengo fortunato. Lavorando ad opere pubbliche (banche, scuole, cimiteri, musei, uffici) posso esprimere il mio linguaggio, sempre che non venga censurato da qualche sovrintendenza.
In linea generale la gente che lavora nelle mie architetture è contenta. Questo mi da una grande gioia ed è la conferma che quello che ho pensato è giusto.

A proposito di tangenza o separazione fra territorio progettuale del design e dell'architettura, l'ormai attivato corso di laurea triennale in Disegno Industriale a Calenzano - Firenze sancisce con i suoi primi laureati una cesura col passato. I numeri parlano di una ormai diretta concorrenza a livello di iscritti tra facoltà e corso di laurea e di una sempre più segnata caratterizzazione tra la figura professionale dell'architetto (in cantiere) e quella del designer (in azienda). La tua opinione a riguardo qual è?
Non sono per le specializzazioni, preferisco i dilettanti, sono per l'incontro, l'intreccio, la mistura, l'ibrido.
L'architetto deve essere un tuttologo.
Come Le Corbusier, Giò Ponti, gli architetti pittori, scultori, designer sono i maggiori esempi. Da loro vengono fuori le idee più originali. Ma, ve lo immaginate un architetto che pensa soltanto all'involucro, che non conosce le arti figurative, l'interior design, che non va mai al Salone Internazionale del Mobile e che non è mai stato almeno una volta in India?

Massimo Mariani
Via Don Minzoni 27 - 51016 Montecatini Terme (PT)
tel. +39 0572 766324 / fax +39 0572 912742
www.massimomariani.net

Massimo Mariani. Nasce nel 1951 in provincia di Pistoia. Si laurea nel 1977 alla facoltà di architettura di Firenze, dove - dal 1980 al 1992 - collabora all'attività didattica di Remo Buti. Nel 1980 fonda con A. Casciani lo studio Stilema, per la progettazione e la produzione di oggetti e mobili sperimentali. Lo studio si dedica alla ricerca negli ambiti del design per gli oggetti d'uso e la decorazione, della grafica, dell'allestimento e dell'architettura d'interni, e partecipa a numerose esposizioni, concorsi ed eventi nell'orizzonte spettacolare del neo-design italiano dei primi anni Ottanta. Si ricordano i progetti per la mostra Conseguenze impreviste (Prato 1982), per i concorsi Doll's house (Londra, 1982) e One family house in wood (Lubiana, 1985), e una serie di nuovi oggetti domestici come Lampade grasse (1984), Cactus inquieti (1985), e La valigia del naturalista (per il concorso «Atelier noveau», Grandi magazzini Seibu, Tokio, 1986). Nel 1986, con un folto gruppo di architetti (P. Caramia, D. Carani, M. Castelvetro, M.Corrado , D. Donegani, S. Giovannoni, M. Iosa Ghini, G. Venturini), vara il Bolidismo, un movimento che assume la velocità e l'ubiquità come temi predominanti della realtà contemporanea e crea giocosi contatti fra gli immaginari del design, del fumetto e dell'illustrazione. A partire dal 1990, la sua attività professionale, con studio a Montecatini Terme, si rivolge all'interior design e soprattutto all'architettura. Realizza una serie di case, tra le quali casa Privata a Monsummano Terme (1989-90) e casa Benigni a Buggiano (1994-98). Per alcune Banche di Credito Cooperativo della Toscana cura l'immagine architettonica e lo styling di numerose agenzie. In questo filone si collocano le realizzazioni di edifici bancari a Pontedera (1991-95), a Fornacette (1993-95), a Poggibonsi (1994-96), a Donoratico (1997-2002) e di edifici per gli uffici Cabel a Empoli (1992-97) e a Milano (1998). Nel 1999 le sue architetture guadagnano il primo posto al "Premio Dedalo alla committenza". Ha redatto altri progetti significativi in occasione dei concorsi per il nuovo complesso industriale CAF a Campi Bisenzio (2001) e per un edificio scolastico nelle aree ex Breda a Pistoia (2002). Nel 2005 è uscita una monografia sul suo lavoro, dal titolo «Massimo Mariani Progetti 1980-2005», Verbavolant editore. Sono in corso di realizzazione l’ampliamento della scuola elementare con biblioteca e il cimitero a Ponte Buggianese, e due appartamenti, uno a Firenze e l’altro ad Empoli. Nel corso del settembre 2008 è stato completato un edificio per uffici ad Empoli, la Cabel Industry. Recentemente è stato portato a termine ed inaugurato il Museo di Benozzo Gozzoli a Castelfiorentino (FI).



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