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 LA LINEA CHIARA DEL DESIGN TRA PLASTICITÀ E RIGORE
 Intervista a Marco Maran


A 40 anni, Marco Maran è uno dei più straordinari talenti del furniture design italiano e non solo. In oltre 10 anni, il designer di Colle Val d’Elsa, ha creato prestigiosi esemplari di seduta – Zip, Carambola, Big Betty Boom, Nuda&Cruda – con alcune importanti realtà aziendali – Fasem, Ligne Roset, BRF, Casprini, Desalto, Plank, Knoll. Ma, oggi, sono gli esiti delle prolungate direzioni artistiche di Parri – Bla Bla Bla, Chiacchera, Blob, Easy, Toffee, Hoop, On Off, Plastic, Hooplà, Free, Joe, Mamy, Little Mamy, Body to Body – e Maxdesign – Ricciolina, So Happy, The Stones, X3 – a caratterizzare una carriera che può ormai vantare numerosi riconoscimenti internazionali – menzioni Young & Design 1994, 1999; premi Young & Design 1995, 1996, Grandesign 1997, IIDA 1997 Product Design Achievement Awards, Good Design Award 2004, Sidim 2004, Catas 2005.

Ti sei formato all’Istituto d’Arte di Siena, quindi, dopo aver frequentato la Facoltà di Architettura, ti sei inserito in una interessante realtà progettuale come studio Archirivolto. Come sono avvenuti questi passaggi?
Il tutto è avvenuto in maniera casuale, prima dell’istituto d’arte ho fatto studi classici: per i miei genitori era importante “avere una cultura più vasta e generale”. Successivamente ho cercato di inseguire il mio sogno iniziale: insegnare storia dell’arte, una materia che oltre agli occhi fa bene al cuore. Quindi mi applico e, cercando di raggiungere questo obiettivo, mi diplomo all’Istituto d’Arte e approdo alla Facoltà di Architettura a Firenze. Ne rimango molto deluso: tempi lunghi, disorganizzazione; una situazione insostenibile per uno che ha voglia di fare. Comincio a guardarmi intorno, ma, a Colle Val d’Elsa – mia città natale –, le prospettive di uscir fuori non erano molte. E’ a questo punto della storia che incontro Marco Pocci e Claudio Dondoli, titolari di un piccolo studio di interior design. Nasce la voglia di progettare pezzi d’arredamento. L’idea mi piace: ho modo di rendere vivo e concreto il mio modo di concepire l’arte. Inizia la sfida, dura, faticosa, ma piena di voglia di fare, di riuscire a fare qualcosa, meglio se di bello...

Che tipo di esperienza è stata questo periodo e che rapporto s’è instaurato fra te e studio Archirivolto? Immagino che i primi contatti con la produzione siano stati una componente importante per la tua evoluzione successiva...
Per me è stato ed è fondamentale avere come partner aziende con cui collaborare con continuità e coerenza, nel rispetto, nella stima e fiducia reciproca: questa è la fortuna più grande che un progettista può avere. Qualsiasi progetto è un piccolo parto: esiste un padre, il designer, ma anche una madre, l’azienda.
Inizialmente il percorso con Marco Pocci e Claudio Dondoli fu molto stimolante: ognuno aveva il suo ruolo preciso e definito all’interno dello studio. Come studio Archirivolto abbiamo fatto un percorso comune, progettando e firmando a più mani prodotti per aziende come Ligne Roset o Fasem. Successivamente nasce in me la voglia di confrontarmi in maniera più diretta e personale con il mondo del design. Anche perché le nostre idee in materia di progettazione non coincidevano più... Volevo firmare i miei progetti, non ero più disposto a cedere a compromessi... Inizia lo strappo: lungo e doloroso, ma necessario.

La tua collaborazione con lo studio si interrompe verso il 1995. Allo “strappo” da Archirivolto (quanto sia stato consensuale mi verrebbe da chiederti) è seguito, apparentemente, un periodo di collaborazioni puntuali – uno, due prodotti per azienda –, molto intelligenti. In tale periodo hai contribuito alla maturazione/consolidamento di alcune realtà toscane (Fasem, BRF, Casprini), e alla creazione di prodotti per realtà consolidate e di prestigio (Desalto, Plank). Che periodo è stato e quali realtà aziendali hai incontrato in questi anni?
Posso provare a toglierti la curiosità. Personalmente non credo siano stati felici della divisione dato che in quel momento ero l’anima progettuale dello studio; questa ovviamente è solo la mia opinione, anche se avvalorata dal fatto che il solo a raccontare dello “strappo” ero io.
Ho incontrato realtà aziendali estremamente varie e, forse per questo, molto stimolanti: il gusto ludico di BRF, con la quale ho giocato si, ma in maniera concreta; il rigore di Plank e Desalto con le quali ho potuto affinare la mia dote quasi maniacale di pulizia formale...

All’epoca, con quali strumenti hai presentato i tuoi lavori e che tipo di cooperazione aziendale hai avuto nei vari passaggi dal progetto, al prototipo, al prodotto in serie?
Presentavo l’idea attraverso rendering fatti a mano e, una volta approvato il progetto, con l’azienda passavamo alla realizzazione del prototipo, in funzione dell’industrializzazione.
Ai giovani studenti e designers alle loro prime esperienze posso suggerire di lottare con fermezza se hanno progetti in cui credono che vogliono vedere realizzati; di avvicinarsi a questo mestiere con umiltà e decisione, ascoltando sì le richieste di mercato, ma andando oltre, proponendo nuove “idee che abbiano un’anima”.

Sinuè, sedia premiata con lo Young & Design nel 1995, è tra i tuoi primi lavori, diciamo, da solista. Questo prodotto da circa due anni vive una “crisi di identità” determinata dalle schizofreniche attribuzioni rinvenibili in diversi cataloghi aziendali. Un fatto increscioso – vissuto da molti designer –, che costringe talvolta l’autore a scoprire, suo malgrado, nel proprio partner aziendale il primo motore del “plagio”. A tale proposito, mi piace citare la presenza di Sinuè su una pubblicazione “popolare” come 1000 Chairs – di Charlotte Fiell, Peter Fiell, edita da Taschen – proprio in quanto, a mio modo di vedere, questa presenza oltre a chiudere la questione specifica della proprietà intellettuale, sancisce anche la tua riconoscibilità come autore – a maggior ragione trattandosi di uno dei tuoi prodotti più acerbi…
A questa domanda posso rispondere solo con una frase fatta: “per i soldi si fanno carte false”.
Sono cose che succedono spesso: molte aziende hanno più di un marchio e giocano al risparmio. Diciamo che il tutto bene e il tutto male non esiste, ma esistono realtà più o meno moralmente corrette: io preferisco le più.

Successivamente a Sinuè la tua collaborazione con un’altra azienda toscana padronale come Casprini, ti porta a realizzare Nuda&Cruda. La sedia, premiata all’epoca della sua uscita, mantiene ancora oggi una impressionante verve e quasi induce chi la osserva a dubitare della sua materialità. Che idea e che disegno c’è alla base di questa riduzione materiale, di questo esempio di furniture origami – esperimento che, mi pare, costituisca un seguito evolutivo di Carambola in cui hai sprimentato le capacità del legno multistrato?
Da Sinuè a Nuda&Cruda sono passati alcuni anni, appartengono però a due linguaggi formali totalmente diversi, l’unica cosa che le accomuna è l’utilizzo intelligente del materiale: con Sinué lavoravo con la plastica, quindi cercavo una forma che al meglio rispecchiasse la malleabilità di questo materiale. Per Nuda&Cruda il problema era opposto: avevo a che fare con un foglio di alluminio. Abitualmente mi diverto a fare piccoli modelli, e un bel giorno, nel piegare un foglio di carta, vedo che con una semplice doppia piega riesco a caratterizzare la sedia: avevo trovato il giusto linguaggio formale per il progetto che volevo realizzare. Il problema adesso era trovare l’azienda che la producesse: era un po’ troppo fuori dalle richieste di mercato; fortunatamente però esistono aziende che hanno voglia di investire e di rischiare.
Ogni progetto che faccio deve nascere da un’idea precisa, deve esserci sempre un obiettivo da raggiungere e perseguire anche con ostinazione. Utilizzando i materiali in maniera corretta “tento” di dare al prodotto riconoscibilità e un carattere ben preciso. Prediligo linee leggere e fluide, ricerco sempre “un guizzo vitale”: nelle case di oggi vengono stivati troppi “cadaveri”. Mi impegno quindi a pensare oggetti in grado di emozionare.

In Lezioni americane, Italo Calvino tratta diffusamente della visibilità. A tale proposito Calvino fa una pertinente distinzione tra “due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all'immagine visiva e quello che parte dall'immagine visiva e arriva all'espressione”. Poiché ritengo che comunque il senso progettuale si veicoli nelle forme del racconto e che un buon progetto si possa sempre narrare, ti chiedo: che tipo di racconto c’è dietro (sotto, sopra, a lato...) alla miracolosa logica assemblativa e raffinatezza formale di Zip che hai creato per Desalto?
Progettando, parto sempre dall’immagine del prodotto che ho in mente, definisco la forma e solo a questo punto posso dire di averle trovato un’espressione: la mia non è arte concettuale.
E’ difficile, a distanza di anni , ricordare il perché e il per come sono arrivato a Zip, sorridendo potrei dire… ”per caso”. Chissà cosa avevo in testa in quel momento... Quello che però ricordo è un taglio al pollice sinistro fattomi mentre realizzavo il modello in cartone, ero talmente soddisfatto che al momento non sentii dolore, ma ne porto ancora la cicatrice, una piacevole cicatrice che ricordo con affetto...

Anche se anticipa un po' il percorso che vorrei fare insieme a te, mi viene da chiederti subito come partecipa a tuo avviso il corpo all'invenzione creativa? Non a caso – credo – il tuo ultimo progetto al Salone del Mobile 2006 si chiama Body to Body...
Già precedentemente, con Ricciolina, avevo analizzato l'idea di una forma che potesse essere rigida ed elastica al tempo stesso, in grado di sostenere in maniera ergonomicamente corretta il corpo. Con Body to Body ho sviluppato questa caratteristica: un corpo a corpo che è un riferimento netto e preciso alla perfetta armonia tra l'uomo e l'oggetto quotidiano. Una forma dall'espressività decisa, nata da un'elevata difficoltà progettuale.
Realizzata in ASA+PC V0, un tecnopolimero di ultima generazione mai utilizzato nel settore dell'arredamento, Body to Body unisce a doti di grande brillantezza della finitura superficiale un'ottima rigidità e stabilità dimensionale. Una sintonia fra forma e materia che è anche unione fisica.

Tra tecnologie consolidate, nuove tecnologie e materiali come vedi il futuro del “fare forma” in questa società. Chi rischia e cosa si rischia nell’ormai consueta “proliferazione” dei nuovi materiali?
I materiali sono sempre una fonte inesauribile di ispirazione, ma ben poche sono le aziende che fanno ricerca e sperimentazione. Sempre più spesso è il designer che si deve far carico di questo aspetto progettuale cosicchè alla fine l’aspetto creativo del progettista prevale sulle necessità “commerciali” dell’azienda. Penso comunque che riunendo gli sforzi si potrebbero ottenere risultati migliori.

Ripensando alla trilogia di Carambola, Zip e Nuda&Cruda vi si può rintracciare un comune intento di ablazione materiale sperimentata su diversi supporti – legno multistrato, polipropilene, foglio di alluminio. Ma è forse con Maxdesign che hai avuto l’occasione di esprimere al meglio questa tensione. Mi riferisco in particolare alla seduta X3...
Con Maxdesign ho trovato una realtà giovane ed estremamente vitale, un energico imprenditore con un partner eccezionale come Knoll. In pochi anni abbiamo realizzato in modo molto naturale e piacevole una serie di prodotti ai quali sono molto legato, arrivando al progetto X3, dove i propositi erano molti, ma le certezze ben poche. Volevo fare un progetto dove l’aspetto tecnologico era un punto fondamentale della riuscita del progetto stesso. L’idea era un prodotto rivolto al contract dove materia e non-materia, rigido e morbido si fondevano in un tutt’uno; volevo avere la sensazione di essere seduto su un disegno tridimensionale: le matematiche della scocca diventano visibili, il materiale, morbido e antiscivolo, viene affogato in un altro materiale rigido e trasparente. E’ stata una sfida: in teoria tutto era possibile, in pratica doveva nascere il prodotto. L’impegno è stato forte: la mia paura più grande era che risultasse un puro “esercizio di stile“ ma il progetto dopo molti sforzi e tentativi è nato in maniera concreta permettendomi di raggiungere l’obiettivo prefissato.

Un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi è quello della relazione azienda/designer. Un paio d’anni fa Enzo Mari espresse a chiare lettere la propria condizione di “espropriato” rispetto ai suoi stessi lavori. Condizione determinata anche dal progressivo spostamento della gestione progettuale (ingegnerizzazione, prototipazione, ecc.) dallo studio professionale alla struttura produttiva o comunque a stutture esterne. Qual è il tuo atteggiamento e la tua esperienza in proposito. C’è stata un’evoluzione coerente e costante tra il tuo modo di proporti nei primi progetti ed oggi?
Non sempre è facile creare un buon feeling fra azienda e designer, ma in questo interviene la componente umana: spesso nella vita di tutti i giorni ci troviamo in situazioni analoghe. Io mi comporto di conseguenza, portando avanti più o meno il progetto a seconda delle realtà aziendali che trovo, l’unica cosa che mi interessa è quella di seguire passo per passo lo sviluppo progettuale del prodotto, accertandomi che l’idea iniziale rimanga integra. Personalmente lavoro molto a mano sul prototipo: prima mi devo convincere della validità del prodotto, solo dopo sono in grado di convincere l’azienda; se in seguito si verifica l’esigenza di intervenire con il computer mi affido a strutture specializzate. Non lascio mai il prodotto in mano all’azienda fino a quando il progetto non è completo e confezionato.

Tornando a Calvino, la sesta ed ultima delle Lezioni americane avrebbe dovuto essere dedicata alla Consistenza. E’ un tema che – credo –, abbia grande attinenza con quelli molto pregnanti di tenuta e durata. Lo spessore, la profondità di un pensiero progettuale applicato ad un prodotto industriale è, forse, tra i contributi meno apprezzati e valutabili da parte della contemporaneità. Almeno a mio avviso, si associa al procedere lento, graduale in cui evoluzione esistenziale ed evoluzione progettuale si determinano quasi in modo congiunto. Il progetto consistente non lascia il progettista identico a prima ma opera di concerto metamorfosi personale e dell’oggetto. Questo è almeno quello che credo, ovvero che ogni forma di progetto consistente prenda corpo in modo quasi letterale e la sua capacità di vita futura necessiti una gestazione appropriata. Come vivi – e, nel caso, quali contromisure adotti – i pressanti richiami del fashion e del trendy che l’ambiente del design – in particolare del settore contract, ma non solo – sta vivendo in questi anni?
Abbiamo assistito ad un continuo andare e venire di stili, di mode, ieri il minimale, oggi il grafismo; le riviste vanno riempite ma il design parla un altro linguaggio: il prodotto ha ragione o non ha ragione di esistere. Se ha ragione di esistere è perché è un passo avanti rispetto a ciò che si è visto in passato. Ogni mio progetto deve avere questa caratteristica nel contesto storico in cui è nato: sono convinto di aver sempre rincorso questo obiettivo, se non ci sono riuscito faccio un “mea culpa”, nessuno è perfetto!...
Quindi il mio rapporto con tali richiami è attento, ma se vuoi distaccato, se ho qualcosa da dire... progetto.
Voglio che siano i miei prodotti a parlare per me, altrimenti meglio un decoroso silenzio. Esistono già tante idee valide in commercio, nessuno ha bisogno di una nuova sedia sulla quale accomodarsi.

Un autore come te, molto dotato e particolarmente votato per il furniture oggi potrebbe scapricciarsi – ma anche letteralmente bruciarsi – in prodotti d’elité, nella piccola serie molto pubblicata ma pochissimo usata. Potresti operare esclusivamente a Milano e invece preferisci un rapporto serrato con una azienda locale e serissima come Parri. Magari lasciandoti l’opportunità di creare pian piano i pezzi di una realtà intraprendente come Maxdesign in cui negli anni hai realizzato una serie di prodotti assai riusciti come Ricciolina e So Happy, alcuni molto complessi – come X3. Ma solo occasionalmente ti lasci andare nell’invenzione di strepitosi pezzi bravura come The Stones... Voglio dire che, a ben guardare, sei abbastanza fedele all’idea di un lungo progetto e sembri portato a previlegiare il lungo rapporto, la durata e la tenuta professionale e creativa...
Non ho mai amato i prodotti d’élite: fare design significa per me rivolgersi alla società; realizzare un prodotto per pochi, è un obiettivo che non mi ha mai interessato: avrei continuato a esprimermi artisticamente in un altro modo. Penso al design come arte nel sociale e vorrei che tutti potessero permettersi di acquistare i miei prodotti e, magari, amarli, ma questo è un altro discorso.
Amo troppo la natura per poter vivere nel caos di Milano; le distanze oggi non sono un problema: si può lavorare sia per aziende “a due passi” da casa mia come Parri, sia per aziende dall’altra parte del mondo come Knoll, la cosa importante è non perdere mai di vista l’obiettivo del progetto. Una collaborazione di lunga durata mi permette di sottolineare in modo più incisivo la mia maniera di progettare.

Due battute ancora su The Stones: è un gioiello formale di seduta temporanea. Bella, sensuale al tatto, procace e provocatoriamente “scomoda”. Un pezzo pensato per soste brevi, ma intense, per gli appostamenti notturni di figure rapaci. Uno sgabello seduttivo attraente e molto “indipendente” come tutti i veri oggetti del desiderio...
The Stones è stato un capitolo a parte fra le cose che ho progettato: ero stufo di sentirmi chiedere il progetto di uno sgabello, “tipo” Bombo (Magis) o “tipo” Slim (La Palma), non avevo niente da aggiungere percorrendo quella strada progettuale. Questo è stato lo stimolo a pensare che si può progettare anche in maniera meno dipendente da pressioni puramente commerciali: è nata una forma libera e fluida, libera nello spazio e seducentemente fluida. E’ importante capire e far capire che anche “pezzi più difficili” possono incontrare il favore e il successo del pubblico.

Dalla raffinata rarefazione materiale di Nuda&Cruda sei arrivato secondo un percorso molto articolato di riduzione formale ad un pezzo di ascendenze astratte come Plastic. Oggetto ibrido che, pur presentando analogie con prodotti contemporanei, non giunge inaspettato nel tuo iter progettuale e, tra l’altro, credo, costituisce l’unico tuo progetto che sia esplicitamente una seduta. Da che deriva questa tua fermezza tipologica ormai decennale?
Plastic è nato come un omaggio all’arte di Brancusi, la citazione è palesemente evidente; con questo progetto ho voluto risolvere un mio effettivo problema: quando ricevevo ospiti a casa non avevo mai abbastanza sedie sulle quali farli accomodare, odio le sedie pieghevoli perché non sai mai dove riporle. Con Plastic ho risolto il problema.
Non riuscirei mai a immettere sul mercato un prodotto con il mio nome ma al quale non sento di appartenere. Tutti, chi per un modo chi per un altro, devono rispecchiare qualcosa di me, del mio modo di essere, di pensare e di vivere. Forse qualcuno mi potrebbe accusare di una lunga fermezza tipologica ma io preferisco pensare che si tratti di coerenza stilistica.

Tornando al tema della consistenza, mi piacerebbe riparlare del tuo rapporto con Parri. Da 10 anni realizzi le collezioni e sei art director di un'azienda che ha ormai conquistato, soprattutto grazie al tuo apporto, un'indentità forte e coerente. Ma 10 anni è, professionalmente parlando, quasi una vita. Mi chiedo quante siano state le discussioni, le divergenze strategiche, i progetti mancati... Oppure è filato tutto liscio
Con Parri mi diverto giornalmente. Dico mi diverto perché sono ormai così tanti gli anni che collaboro con l'azienda che i nostri rapporti professionali sono ampiamente superati da quelli umani. Certo, ottenere tutto questo non è stato così semplice, devi sempre confrontarti, discutere, talvolta scontrarti, ma tutto diventa più semplice quando ti accomuna la voglia di ricerca, supportata da continui investimenti, e il rispetto del design.

Altro tema rilevante della tua produzione con Parri è la densità della produzione. Ogni nuovo progetto viene presentato nella versione sedia, poltroncina, a base unica, su ruote, in versione contract su barra, ecc... Dal punto di vista produttivo ciò significa un forte impegno economico a massimizzare la flessibilità dell'offerta. Ma da parte del progettista ciò significa affrontare un progetto "a ventaglio" che costituisce un'impresa inventiva abbastanza stessante. In una sola collezione devono essere risolti numerosissimi problemi di attacco fra scocca e supporto: il prodotto deve essere fortemente riconoscibile eppure "funzionare" in una serie molto vasta di varianti. Una sorta di multiprogetto – ovvero anche di metaprogetto – condensato in un unico nome...
Parri nasce con una precisa filosofia aziendale: lavorare al servizio del contract e per tutte le categorie ad esso appartenenti, quindi più che ad un singolo prodotto mi viene naturale pensare ad un'idea di famiglia. Cerco sempre una forma concreta e accattivante, ma versatile nelle molteplici possibilità d'uso, dove le strutture di sostegno siano delle semplici sottolineature.

E sempre in tema di densità progettuale, vorrei concludere con un'ulteriore peculiarità riscontrabile nel tuo approccio ideativo e rappresentativo del prodotto. C'è nel tuo modo di rappresentare il prodotto una evidente ricerca di dinamicità che sovente sconfina nella distorsione plastica dell'oggetto. Un'indagine virtuale a 360° che è quasi un'istigazione a saggiare praticamente l'oggetto finito. E non è raro nella comunicazione aziendale – è il caso ad esempio di So Happy, di alcune versioni di Hoop, della versione panca di Ricciolina,...   rinvenire sottolineature di momenti di felice tensione formale riservate a parti "nascoste" dei tuoi lavori. Nei tuoi attacchi alla scocca c'è infatti un "palese" dispendio di energie creative e formali che assai di rado capita di incontrare...
Trovo estremamente stimolante curare il progetto in tutte le sue parti, un prodotto si scopre poco a poco, è fatto anche di particolari che possono unire o dividere: la cura del dettaglio, anche nelle sue parti nascoste, è fondamentale come lo sono le sue parti a vista.
Ho amato tanti progetti per dei piccoli particolari. Per altri non sono fondamentali, per me contribuiscono a fare la differenza.



Marco Maran
via Camaldo,4
53036 Poggibonsi (Siena) – Italy
Tel/Fax: +39 0577 935983
www.marandesign.it


Parri
www.parridesign.it
Maxdesign
www.maxdesign.it
Knoll
www.knoll.com
Desalto
www.desalto.it
B.R.F.
www.brfcolors.com
Casprini
www.casprini.it
Plank
www.plank.it
Fasem
www.fasem.it


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


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Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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a cura di: 
Umberto Rovelli 


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Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
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