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 DEL PROGETTO ( E DEL DESIGNER ) VERSATILE
 Intervista a Luigi Trenti


Under 40, eclettico, attento sia alla praticità d'uso che all'innovazione funzionale, Luigi Trenti può già vantare al proprio attivo una serie notevole di prodotti vincenti. Dotato di un'inconsueta versatilità creativa - dal settore illuminotecnico all'arredo, dagli strumenti per scrittura alle cucine di design e alla strumentazione elettromedicale - il designer fiorentino ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali collaborando con aziende quali Targetti Sankey - dove progetta il proiettore orientabile Mondial, Premio IF ad Hannover e, inserito nel successivo sistema F1, Compasso d'Oro nel 1998 - Osram, General Electric, Martini Illuminazione, Pineider, Locman, 1000Miglia, Ciatti, Ycami, Bugatti.

Dal tuo punto di vista, in questi ultimi dieci-quindici anni come si è evoluta la relazione progetto-prodotto?
Proprio negli ultimi anni si è verificata una drastica evoluzione per quanto riguarda l'impostazione del nostro lavoro. Con la diffusione capillare delle strumentazioni computerizzate e la facilitata accessibilità a software di progettazione CAD 3D, la gestione del progetto dallo studio professionale si è progressivamente spostata verso la struttura produttiva. Ho sempre pensato al mio lavoro come quello dell'artista che si inventa una idea, la porta in azienda, e lì questo embrione si sviluppa stabilizzandosi fino ad uscire, finalmente partorito, sul mercato: ciò vale a dire che ogni prodotto è come una sorta di figlio determinato dall'incontro tra una idea e una realtà produttiva. E' la stessa modalità progettuale dei grandi designer italiani di alcuni decenni fa. Loro operavano in questo modo, ma all'epoca la realtà era molto diversa: era più facile proporre idee perché il mercato era vorace di novità mentre in realtà c'erano ancora forti limiti produttivi.

Cosa è accaduto?
E' accaduto che il designer, per quanto competente in tecniche produttive e per quanto si sia attrezzato per fornire un servizio "completo" all'azienda, nel produrre i suoi disegni esecutivi si è rivelato assolutamente inadeguato. E' stato un po' il giusto fallimento della figura forzata del designer "imprenditore", dello studio-azienda che tentava di vendere il progetto completo e confezionato; questo perché le aziende, che hanno i loro percorsi produttivi, hanno confermato di non accettare progetti "intrusi" e di avere la necessità di gestire la fase produttiva attraverso i loro uffici tecnici interni o, al limite, attraverso società di fiducia esterne specializzate in industrializzazione e prototipazione rapida e dirette da ingegneri specialisti del settore. E' stata una evoluzione qualitativa non immediata ma graduale che ha anche comportato, nei primi tempi, una sorta di paradossale contrasto tra progetto del designer e progetto produttivo dell'azienda, con ovvio spreco di risorse in realizzazione di disegni che appena arrivavano in azienda venivano, con garbo, direttamente cestinati e poi riconcepiti integralmente. Adesso, dal punto di vista del designer, cavalcare questa evoluzione significa semplificare l'organizzazione dello studio. Personalmente mi propongo alle aziende con semplici bozzetti che hanno e devono avere ovviamente in sé presupposti di producibilità e commerciabilità. Se poi queste idee incontrano gli interessi del produttore mi impegno a seguire da "art-director" le fasi esecutive della progettazione e produzione onde evitare stravolgimenti eccessivi. Insomma i miei disegnatori di un tempo si sono "trasformati" nei tecnici che ritrovo nelle varie realtà produttive dei miei clienti.

Anche la decisione di mettersi in proprio diventa quindi più semplice?
Certamente, perché il risultato di tutto questo processo è che oggi si sta rivalutando la figura specialistica in senso lato: nel caso dei designer si rivaluta l'identità di creativo proprio come la si intendeva venti o trent'anni fa e in questo senso il confronto professionale sta finalmente ritornando a livello dell'idea, non dei fatturati o del numero di dipendenti dello studio. Un giovane designer può proporre una buona idea ed entrare nel catalogo di un importante marchio a fianco di idee firmate dai mega-studi-"progettifici", che è un po' quello che è accaduto a me con Targetti all'inizio della carriera nel '92. Nel mio caso specifico, i miei primi anni con Targetti sono stati un'esperienza fortunata e te la voglio raccontare! Risposi ad un annuncio di Targetti pubblicato su "La Nazione": non si richiedeva precisamente il mio profilo professionale in quanto cercavano disegnatori meccanici e un art-director, ma ormai era tale il desiderio di buttarsi a fare prodotti che mi sono presentato con un book nel quale c'era anche la mia tesi. Paolo Targetti doveva realizzare un nuovo apparecchio a fluorescenti e durante il colloquio di lavoro lui disse: "questo bozzetto mi piace". E da questo episodio fortunato, nato così come lo racconto, cominciai una esperienza che mi vide nominare Responsabile del Design dopo sei mesi. Si trattava di una situazione molto particolare, perché c'era in corso una rivoluzione interna a livello societario; era quindi un momento di ristrettezze economiche in cui c'era bisogno di gente valida che si prendesse molte responsabilità. Una situazione particolare che mi ha messo in condizione di gestire tutto il piano produttivo pluriennale da cui, nel corso degli anni successivi sono usciti anche alcuni prodotti rivoluzionari. Ne cito un paio: Arianne - la prima collezione nella storia di apparecchi tecnici realizzata in poliuretano compatto - e Mondial - incassato orientabile in pressofusione di alluminio che diverrà successivamente il corpo illuminante inserito nel sistema F1 vincitore del Premio Compasso d'Oro nel 1998. Quindi, tornando alla tua domanda, il mio messaggio qui per i giovani laureati è: coraggio, buttatevi nel mondo del lavoro...

Eppure, nel '98 il Compasso d'Oro per F1 è stato attribuito al solo Paolo Targetti. O mi sbaglio?
Per la Targetti Sankey hanno disegnato in tanti e in tante vesti, socio, designer interno, designer esterno: Massimo Sacconi, Christian Theill, Catherine Hamon sono alcuni dei miei più vicini predecessori; eppure non trovi nessuno di questi nomi sui cataloghi. Neppure l'autore di Structura - che si dice fosse un fornitore esterno - è mai stato citato. Quel Compasso d'Oro doveva essere assegnato dall'ADI alla Targetti Sankey Spa come produttore e come design all'Ufficio Tecnico Targetti Sankey: i protagonisti di quel progetto che è iniziato con il progetto del Mondial nel 1993, sono stati in ordine cronologico: Roberto Nesti, Luigi Trenti, Gino Cipriani e Piero Landini. Comunque proprio il fatto di non poter ottenere un pieno riconoscimento di paternità progettuale, unitamente al desiderio di progettare altre tipologie di oggetti - oltre alle lampade - sono stati i motivi che mi hanno spinto a lanciarmi nella libera professione.

Per un periodo ti sei comunque trovato lavorare da esterno per Targetti...
Si, per un anno ho continuato con loro perché - anche per ragioni di concorrenza - avevo un contratto in esclusiva con Targetti.

È stata comunque una scelta fortunata. Appena uscito da Targetti ti trovi in competizione con grandi studi, e sei ripetutamente premiato. Non solo nella categoria giovani. Sei selezionato, prima da Jean Nouvel e poi da Michele De Lucchi, negli International Yearbook of Design. E - particolare interessante - per tipologie di prodotto marcatamente differenti, in settori diversi. Se è vero che esistono validissimi professionisti che hanno scelto un settore progettuale, se non specialistico abbastanza circoscritto, al fine di esprimere al meglio la propria eccellenza, il tuo percorso, al momento, appare meno lineare...
E' una caratteristica che mi piace sottolineare e un po' m'inorgoglisce. Sono passato dall'illuminazione con Targetti - dove sono arrivato quasi per caso dando comunque un contributo, credo, interessante, poi confermato in prodotti come Lesena per Martini -, quindi sono passato alle strumentazioni elettromedicali per Seac - esposte nel 2000 alla Biennale del Design di Lubiana. Per Pineider ho progettato Egosphere - la stilografica diventata ultimamente il simbolo del marchio - e Jolly - una penna in pelle che rinnova per molti versi l'approccio progettuale a quella tipologia di strumento per scrittura. Più di recente con Metrocubo per Ciatti a Tavola mi sono accostato al tema della cucina creando una sorta di isola completamente attrezzata di ingombro minimo riuscendo a coinvolgere Whirlpool e la rubinetteria Gessi. Insomma ottenendo dei discreti risultati pur cambiando di settore e tipologia di oggetti.

Professionalmente ritieni un vantaggio questa tua versatilità progettuale?
Dal punto di vista economico è stato forse anche controproducente, nel senso che purtroppo per una radicata specie di disinformazione culturale, il design system ti chiama e ti cerca soprattutto quando riesce ad identificarti in un ruolo preciso. Ti voglio raccontare un buffo episodio ricorrente: ogni anno a Colonia mi capita di incontrare Mino Bellato proprietario della omonima società oltre che della Pallucco Italia. Ebbene tutte le volte che mi vede mi chiede sorridendo: "Salve architetto, ma lei che ci fa qua? E' una fiera del mobile non della luce!" Questo perché qualcosa in lui si è cristallizzato nell'identificarmi come il designer della Targetti o della Lesena di Martini e, come molti altri imprenditori, non comprende che il fare design non è come essere uno medico specialista; nel design - se lo sai fare - è possibile spaziare in vari settori anche molto diversi fra loro effettuando con successo stimolanti trasposizioni di campo.

Il designer è ½ manager e ½ artista?
Ho in mente una sorta di equazione, perché secondo me un prodotto ha due fattori che lo rendono vincente. Uno è senz'altro il concetto innovativo - che può essere bilanciato tra estetica e funzione, tra quoziente estetico e quoziente funzionale. A questo va poi associato un fattore "K" che è il costo. Vale a dire che si può eccellere nella prima fase, ma se si fallisce in questo secondo fattore il prodotto poi non ha successo, non viene commercializzato e quindi, di fatto - per quanto possa essere premiato alle manifestazioni o pubblicato su riviste - non c'è un vero riscontro a livello professionale. Si chiude la saracinesca dello studio! Molti colleghi mi criticherebbero questa rude "equazione produttiva" perché parlare di design confrontandosi così apertamente con il mercato equivale a "deculturalizzare" questa disciplina. Ma purtroppo la nostra non è più la generazione dei Sottsass e dei Mendini. Con tutte le problematiche che si riscontrano oggi a livello economico, con lo spettro dell'estremo oriente, ecc., la nostra generazione deve per forza confrontarsi con esigenze di prezzi e di mercato. E per noi il successo è questo, il prodotto vincente è la magica combinazione di questi due coefficienti.

Non ritieni che lo stesso fattore K sia una variabile molto complessa? Non parliamo certo, anche se naturalmente è fondamentale, del semplice costo di produzione...
Da tempo ormai sono convinto che il successo di un prodotto si ottiene quando alle spalle è garantita un'organizzazione di marketing vincente. Ormai è ciò che fa la differenza. Il caso Alessi per certi versi è emblematico. Si trattava di una azienda con un'immagine estremamente seria, tecnologica. Realizzava prodotti molto rigorosi, di acciaio, con forti connotazioni, diciamo, evergreen - basti pensare a certe macchine da caffè che sono durate decenni, lo stile fantastico di Richard Sapper. Ad un certo punto abbiamo un improvviso dirottamento di strategie: una fortissima caratterizzazione degli oggetti, strani, coloratissimi, di "tendenza"; il tutto realizzato con materiali che non avevano niente a che fare con la tradizione aziendale che era tutta improntata nella lavorazione dell'acciaio inox. Eppure, andando a vedere i negozi di liste di nozze, troviamo un'invasione di prodotti Alessi e tutti, comunque, regalano qualcosa di Alessi. Com'è possibile? Un'operazione del genere sarebbe inaccettabile per la maggior parte degli imprenditori in Italia. Un salto nel buio. Non solo è inaccettabile mutare l'immagine generale del prodotto legato ad un certo marchio, è inaccettabile anche mutare il tipo di tecnologie adottate per realizzare i prodotti. Alessi è stata un caso emblematico di azienda che - attraverso un marketing vincente, una pubblicità azzeccata, ecc. -, è riuscita ad andare contro ogni tradizionale regola "identitaria", ottenendo ugualmente un successo strepitoso: addirittura mettendo in panchina un colosso come Sapper e trasformando in una star Stefano Giovannoni.
Il caso Alessi è secondo me emblematico e dovrebbe invitare molti imprenditori non a copiare (come è accaduto a raffica) ma a prendere appunti. Perché occorre l'idea - e questa deve essere indovinata ed industrializzata bene -, ma è solo incontrando una realtà produttiva che sa come venderla che un tuo lavoro diventa un successo. Potrei citare diversi oggetti e prodotti che erano validissimi ma che non hanno avuto il riscontro dovuto per l'assenza di un supporto di marketing aziendale adeguato.
Per tornare alla Toscana, Segis rappresenta un altro caso di successo in buona parte da attribuire alle capacità imprenditoriali di Franco Dominici che si sono particolarmente manifestate in occasione della promozione della poltroncina Breeze di Carlo Bartoli. Un oggetto che sono riusciti a produrre e vendere in circa un milione di pezzi: una cifra fantasmagorica per una sedia prodotta in Toscana, anche in considerazione del fatto che si tratta di una tipologia di prodotto arrivato ben dopo le sedie di Philippe Starck per Kartell e Driade, dopo tanti esempi riusciti e di grande successo commerciale che - apparentemente - avrebbero dovuto saturare il mercato. Carlo Bartoli ha avuto un meritato rilancio di immagine. Perché dunque questo successo? Perché c'è comunque un prodotto fatto bene, in modo corretto, ma c'è anche qualcosa che molto spesso manca: una forte, appropriata, distintiva e puntuale strategia di marketing. Se poi, alla luce di tutto ciò, diamo una occhiata a quel che si sta facendo a livello formativo nelle scuole di design, è facile accorgersi che è proprio questo che manca. E' sì importante realizzare corsi per formare designer (e ce ne sono fin troppi), ma è ancora più importante formare imprenditori consapevoli della importanza di investire nel design. Altrimenti è come se si producessero tante fantastiche auto - i designer - senza costruire adeguate strade - aziende - per farle correre. Creare corsi per formare una classe imprenditoriale - specie in questa zona un po' più, diciamo, depressa rispetto al nord - che abbia chiare le potenzialità aperte dall'investimento nel design e che sappia sfruttare le buone idee rendendole produttive. Questo, secondo me, è l'aspetto che - tra i tanti del ritardo formativo in Italia - viene più trascurato ma in realtà è la più fondamentale delle carenze che oggi percepisco.

Con Lesena - che hai realizzato per Martini - hai quindi cercato di realizzare, a costi non elevati, un prodotto innovativo di estrema funzionalità?
E' un prodotto in cui si condensano quelle che sono le mie aspirazioni di sempre quando affronto un progetto. Aspirazioni che poi, si scontrano con gli aspetti legati in primo luogo al fatturato. Con le aziende - e soprattutto in un momento congiunturalmente poco propizio come l'attuale - non è mai facile riuscire a forzare certi parametri proponendo qualcosa di veramente innovativo e diverso da ciò che già esiste sul mercato. A ben guardare nel settore luce si assiste ad un appiattimento formale molto marcato che ha portato alla produzione di cataloghi uniformemente costituiti da scatole di metallo o poco più, di pezzi speciali mascherati da prodotti. Questo, perché? Perché la necessità di mantenere la propria posizione sul mercato ha spinto molte aziende ad appiattire la propria logica produttiva alle richieste della grande architettura civile e, soprattutto, specialistica. Anni fa una società, come la Guzzini, contattava Bruno Gecchelin - un vero specialista della luce che già all'epoca aveva già lavorato con diverse aziende - e gli commissionava lo Shuttle che è a tutti gli effetti un prodotto fantastico, studiato veramente bene. In breve diventa un grande successo che si conferma anche nella media e lunga durata, realizzato in una gamma veramente completa in grado di coprire tutte le esigenze di illuminotecnica. Oggi l'azienda che vuole vendere non ricorre più al designer specialista della luce, il progettista navigato ed esperto che sa controllare la forma e magari innovare. Ora l'azienda ricorre direttamente all'architetto civile perché l'architetto civile ha in mano qualcosa di troppo importante per l'azienda: i cantieri, e questo significa migliaia di pezzi venduti prima ancora di essere prodotti, con un bel cordiale saluto alla ricerca di design illuminotecnico.

E tornando al difficile rapporto di convivenza tra prodotto illuminotecnico e progetto d'interni, il successo di Lesena lo imputi alla sua capacità di unire uno stile minimale ad una forma dal design inconsueto e fortemente caratterizzato...
Il mio è stato il tentativo di fare qualcosa che comunque fosse assimilabile per tutti. C'è chi vi ha visto elementi di decostruttivismo - la parete che si sfoglia di certe architetture dei Site. Per alcuni si tratta di un progetto minimalista, mentre per altri ancora sono evidenti le citazioni new-edge design di certi modelli Ford. A livello funzionale la caratteristica è quella della massima flessibilità. La scatola retrostante può infatti essere elettrificata in qualsiasi modo. Può essere inserita una luce d'emergenza per una funzionalità anche in caso di blackout; può essere dotata di regolatore di luce e il corpo illuminante può essere indifferentemente alogeno, fluorescente, agli ioduri metallici, ecc.
Complessivamente questo pannello a parete da terra - tipologia di cui Lesena è a pieno diritto il progenitore - è quindi fortemente riconoscibile senza essere accentratore, con potenzialità inesauribili di usi e valenze - caratteristiche evidentemente gradite dal mercato al punto che si sono visti spuntare negli ultimi anni numerosi cloni di Lesena non solo nel settore luce ma anche in settori quali il complemento d'arredo e le specchiere, il termoarredo, l'arredobagno...

Dopo l'interessante esperienza di Egosphere, che ha rappresentato per Pineider l'icona del passaggio di millennio, ti sei trovato con la recentissima Jolly a sperimentare inconsuete valenze produttive e materiche per il settore. E forse più che con Egosphere c'e molto da raccontare che a prima vista può sfuggire...
Per Jolly è stato importante, in primo luogo il contesto: Pineider è un marchio storico fiorentino legato al mondo della carta e della stampa che realizza sia strumenti per la scrittura che oggetti di pelletteria di piccola e media dimensione. Jolly è una penna che ha un rivestimento in pelle sostituibile e quindi, al pari di Egosphere, ha forti valenze di rappresentatività; se non altro perché partecipa ad entrambe le aree del core business aziendale. In secondo luogo l'idea innovativa: le penne in pelle sono una tipologia dello strumento per scrittura che viene realizzata generalmente in un determinato modo. Vale a dire che viene preso il lembo di pelle, viene fatto aderire al tubo esterno della penna cercando di far tornare con precisione assoluta i due lembi terminali. Ovviamente si scelgono sempre colori molto scuri in modo da mascherare al meglio le ineliminabili piccolissime imperfezioni su questa giunzione. La mia scelta progettuale è stata invece la seguente: dato che comunque la giunzione resta visibile ho cercato di evidenziare la giunzione e - facendo in qualche modo di necessità virtù - l'ho caratterizzata in modo forte come una costola. In tal modo, impugnando la penna diventa un elemento ergonomico che rende più efficiente la presa. Inoltre viene fortemente ridotto il rischio di caduta perché la penna - anche lavorando su un piano inclinato - non rotola a terra. Il rivestimento è sostituibile in maniera molto semplice svitando il disco terminale del fondello che ferma il cilindro in pelle del rivestimento. Si sfila agevolmente e viene cambiato con estrema facilità. Il limite ai colori adottati in catalogo dipende semplicemente dall'abbinamento col colore dell'agenda. In più l'idea è applicabile anche con altri tipi di rivestimento che possono così essere tessuti, gomma, ecc. Il cappuccio costituisce infine il proseguimento ideale della costolatura in pelle, ma essendo ruotabile diventa anche una comoda clip.

In qualche modo hai contribuito alla riattualizzazione del marchio...
Con una certa soddisfazione posso dirti che oltre a Egosphere che trovi in vendita sugli aerei della Alitalia al posto delle Montblanc, Jolly viene da qualche mese pubblicata spontaneamente su riviste di settore, ed è stata esposta alla BIO 19 di Lubiana, preselezionata per il Compasso d'Oro, finalista al Grandesign, ecc... Insomma ho veramente lavorato "con il cuore" per questo marchio fiorentino. Purtroppo la situazione attuale di Pineider è simile a quella di molti marchi storici italiani e stranieri. Si tratta di un marchio di grandissimo prestigio e tradizione che è passato più volte di mano in mano e che sta uscendo solo adesso da una delicata fase di liquidazione. Restando in area fiorentina la Gucci ha avuto molta più fortuna. Con una certa strategia, in una decina d'anni, è passata da un prodotto di altissima qualità produttiva - che si vendeva meno -, ad una produzione, forse meno sofisticata, ma di grande successo economico. E' stato rivoluzionato il marchio, con un investimento milionario in comunicazione che ha spinto molto sulla "percezione" del cambiamento ottenendo però risultati notevoli perché oggi il marchio Gucci si è chiaramente rafforzato. Pineider avrebbe bisogno di un intervento simile.

Attualmente su cosa stai lavorando?
In varie e distanti direzioni: come al solito... C'è la messa a punto di tutti i prodotti presentati all'ultimo Salone corredati da nuove proposte per il 2005, alcuni inviti al rientro per Euroluce per cui incrocio le dita perché - per i motivi suddetti - non sono ancora molto convinto, un analizzatore per chimica clinica da presentare al Medica di Dusseldorf in novembre e dulcis in fundo gli strumenti per scrittura per la Bugatti, un vero gioiellino della tecnica.

Nel tuo percorso formativo hai incontrato fugure come: Giovanni Klaus Koenig, Roberto Segoni, Remo Buti e suoi "assistenti" - che all'epoca erano Stefano Giovannoni e Guido Venturini. Infine Biagio Cisotti che hai avuto come corrrelatore di tesi... Quanto sono contate nel tuo iter queste presenze?
Ho fatto l'Istituto Tecnico e quindi la facoltà di architettura. All'inizio con un certo entusiasmo, ma a un certo punto mi sono accorto che non c'era questa vera qualità di insegnamento. A livello di progettazione architettonica sono rimasto molto deluso, anche perché, forse, mi aspettavo cose entusiasmanti. I nomi che hai citato sono veramente quelli più cari di quel periodo e che ritengo siano riusciti a trasmettermi un entusiasmo che ha giustificato la scelta del mio percorso formativo. Giovanni Klaus Koenig, ad esempio, nelle sue lezioni era capace di parlare, che so, di un chiodo e riuscire ad entusiasmarti. Veramente. Tra l'altro passando attraverso i più svariati settori: il cinema, il teatro, la musica. Era una persona dotata di un fascino incredibile. Fumava le North Pole!
Roberto Segoni, d'altra parte, era divertentissimo. Alle sue lezione si rideva. Era quasi come essere ad uno spettacolo di Roberto Benigni, ti faceva veramente divertire e, nei racconti, era trascinante. Mi ricordo che seguii la prima lezione di Segoni dopo cinque anni nei quali ero andato anche abbastanza bene, ma non sapevo ancora quale sarebbe stata la mia strada. Avevo già fatto esperienza in studi professionali di architettura seguendo pratiche di condono edilizio e qualche cosa di arredo, però non mi ero assolutamente entusiasmato per qualcosa in particolare. Fu sufficiente quell'unica, prima lezione a convincermi che il design era il mio lavoro e il mio futuro.
Remo Buti era un altra figura straordinaria con quella impostazione di insegnamento dei suoi corsi assolutamente originale ed innovativa. Con lui si faceva veramente un design d'interni fuori di testa e c'erano come assistenti, personaggi che appartenevano al movimento bolidista come Massimo Mariani, Stefano Giovannoni, Guido Venturini. Era un'esperienza incredibile perché dal non saper infilare un chiodo nel muro, ti ritrovavi ad apprendere la tecnica modellistica, a incollare, stuccare, verniciare, dipingere... E a fine corso i 200 modelli messi tutti insiemi erano quasi un'opera d'arte collettiva. 200 moduli base perfettamente uguali con 200 soluzioni completamente differenti. Il tutto poi assemblato, fotografato e messo in mostra alla Triennale di Milano. Ecco, alla fine dopo un percorso di 30 esami uno si ricorda veramente chi gli ha trasmesso qualcosa di emozionante.

Luigi Trenti Design
www.trentidesign.it

Ciatti
www.ciatti.net
Ci Emme Sistemi
www.ciemmesistemi.it
Diebold
www.diebold.com
General Electric
www.ge.com
Locman
www.locman.it
Martini Illuminazione
www.martinilight.com
1000 Miglia
www.millemiglia.it
Pineider
www.pineider.com
Seac
www.seacfi.com
Sodi Scientifica
www.sodi.com
Stern Laser
www.sternlaser.com
Tim
www.tim.it
Ycami
www.ycami.com


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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a cura di: 
Umberto Rovelli 

 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.

IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.




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