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 PROGETTO E PASSIONE

Di seguito presentiamo l'intervento di Enzo Mari – svoltosi a Firenze il 7 aprile 2001 – durante l'incontro presso l'Aula Magna di Palazzo Vegni in occasione della presentazione del volume Progetto e passione, edito da Bollati Boringhieri, organizzata dal Centro Studi Giovanni Klaus Koenig in collaborazione con il Dipartimento di Tecnologie dell'Architettura e Design - Facoltà di Architettura. Nella medesima serata sono intervenuti: Lara-Vinca Masini, Giuseppe Furlanis, Vincenzo Legnante, Lino Centi e Roberto Segoni.


Io non so che cos'è il design. Una volta sapevo cos’era l’architettura, oggi non so più nemmeno questo. Una volta sapevo cos'era l'arte, oggi non so più cos'è, anche se – talvolta, e nella sola arte – vi ravviso dei momenti di grande tensione.

Devo dire innanzitutto perché ho fatto questo libro. Parlo molto facilmente, ma scrivo con molta fatica perché io so cos'è la qualità della forma. Conosco per esempio qual è la qualità della forma musicale anche se non so leggere il pentagramma o suonare uno strumento. Conosco molto bene la qualità della poesia non so però scriverla. E' da molti anni che volevo scrivere, ma io non conosco la qualità della forma letteraria. Penso che le grandi opere del pensiero siano anche grandi opere letterarie. Ad esempio Galileo non sarebbe Galileo se non avesse avuto una grande qualità letteraria. Quindi ho scritto questo libro con grande fatica.

Prima ho cercato per anni un escamotage che mi consentisse di parlare della globalità quando questo è impossibile. Ero molto imbarazzato ad affrontare l'argomento. Ho pensato per anni se scrivere il libro in dialetto, se scrivere il libro in poesia, se trovare qualcuno, un bravo letterato con cui dialogare. Quest'ultima soluzione mi era sembrata la forma più realistica, ma coinvolgere un bravo letterato ad un dibattito di 4 anni era impossibile. A un certo punto ho deciso di scriverlo comunque, assumendomene ogni responsabilità. Ognuno dà la farina che ha, sarà mediocre, non importa. E ho scoperto che non riuscivo a scriverlo un’ora o due al giorno perché ogni volta mi sembrava di sapere diverse cose. E non volevo mai parlare di cose che non avevo fatto o verificato almeno 50 volte.

E' tutta la vita – sono cinquant'anni esatti – che lavoro e ognuno dei miei duemila progetti, spesso piccoli progetti di cui molti sono solo iniziati e non completati, ognuno di questi lavori mi è servito prevalentemente per capire in cosa consiste questo lavoro.
Questo lavoro lo fanno le persone che devono garantire la qualità estetica del prodotto. Quindi qual è la qualità estetica?
Occorre riferirsi alla figura del «maestro».

Se devo parlare della musica – anche se sono Schönberg – non posso insegnare la musica a chi non si sia già prima innamorato di Monteverdi, o di Bach, o di Mozart. Non posso insegnare a chi non conosca già, qualcuno dei grandi maestri.
Se fossi il ministro della Pubblica Istruzione eliminerei i corsi di progettazione dalla scuola di design. Nella scuola di design si dovrebbero fare solo corsi di rilievo sulle opere dei maestri. È solo questo il modo per imparare. La qualità è quella espressa da loro. Non c'è nessuno che possa parlare astrattamente di cosa è la qualità. La qualità talvolta emerge quando si è colpiti al cuore incontrando l’opera di un maestro.

In tutta la storia dell'arte possiamo ravvisare un centinaio di capolavori, o poco più. Da questi sono discese tutte le altre opere, da quelle scadenti ad altre non di «maniera» ma di integrazione come, ad esempio, il Manierismo napoletano del Seicento. Ma per l’appunto, sono state realizzate dialetticamente agli archetipi. Se non fossero esistite le centinaia di archetipi non esisterebbe il milione di opere d’arte di una qualche decenza e i miliardi di pasticci indecenti. Non ci sarebbero scuole d'arte, non ci sarebbero scuole di design, non ci sarebbe nulla!
I maestri sono dunque quelli ed è inutile raccontare storie. E’ solo dalla confidenza con loro che possiamo imparare.

In un insegnamento finalizzato alla qualità – altrimenti non dovremmo chiamarlo insegnamento –, le problematiche per realizzare la forma costituiscono l’essenziale. Sono quelle dell'espressione. Tutti i tipi di espressione. Durante le mie lezioni parlo spesso di Dante Alighieri o di Proust per parlare dei problemi della forma classica. Così come parlo di Bach. Esistono indubbiamente connessioni tra queste tipologie e quelle rilevabili nella scienza che introducono alla tecnologia. E a maggior ragione esistono connessioni con quelle relative alle scienze dell'uomo.
Stiamo quindi parlando di tutta la cultura del mondo.
E come si può pensare di dare diplomi a chi in soli quattro anni dovrebbe riuscire a possedere tutta la cultura del mondo? Non si può.

Voi mi direte il mondo non è fatto solo di grandissime opere. Il mondo è fatto anche di cose più semplici, più normali, non facciamola tanto lunga... Nessuno vuole prendersela con i milioni di operai che realizzano all’interno della loro cultura frammentaria, quello che a loro appare come dignitoso. Ma parlare della qualità è come parlare di Dio. Com’è pensabile cominciare a parlare della qualità avendo come solo riferimento le banali o, a volte, orrende proliferazioni dei prodotti recenti. Occorre avere un riferimento sicuro della massima qualità raggiungibile.

Ognuno di noi, quando fa il suo lavoro intensamente, si pone obiettivi che poi si rivelano aldilà delle proprie capacità, dei propri mezzi. E’ umano. Ma è proprio per questo dico che dal punto di vista istituzionale la scuola di design – come del resto la scuola di architettura – è profondamente sbagliata, è un aborto... Dopodiché sono il primo ad ammettere che ci sono gli sforzi dei singoli, altrettanto umani, che risentono, ciascuno – sto parlando ovviamente anche di me e di chiunque come persona – delle contraddizioni, dei propri lessici, delle difficoltà legate alla mancanza di un contesto, di un dialogo...
L’attuale situazione istituzionale è che tutti ci ritroviamo in una stanza separata, ognuno fa quello che vuole, ognuno insegna quello che vuole senza alcun riferimento ad un orizzonte comune... Sto parlando del fatto che – da sinistra come da destra – le parole d’ordine sono «compriamo tanti personal computer». Quando invece se c'è qualcosa che andrebbe eliminata nella scuola è proprio il computer. Personalmente non so l'inglese ed è un handicap non da poco. Mi rende tutto molto difficile quando vado all'estero, mi crea dei problemi di traduzione, ecc... Come del resto non so guidare l'automobile. E anche questo mi dà di nuovo ulteriori problematiche... Quindi ad un giovane studente direi senz'altro studiati molto bene l'inglese, impara a guidare l'automobile. Ma direi anche, in questo momento esiste questo potente strumento così diffuso, occorre saperlo usare quando è necessario... Ma non gli vado a dire che l'inglese serve per imparare a progettare, che guidare l'automobile serve per imparare a progettare, che usare il computer serve per imparare a progettare. Usare il computer rende «incapaci» di progettare. Dà l'illusione di saper progettare, nella totale ignoranza.

Nel presentare Progetto e passione, Giuseppe Furlanis ha detto che questo mio libro «non è di moda». Non poteva farmi miglior complimento.
E questo perché di fronte a noi c’è questa situazione alienante dove nelle scuole si insegna il nullla – un nulla privato che nasce, anche e soprattutto, dalla mancanza di dialogo – e dove milioni di imbecilli pubblicano progetti in un quarto d’ora... Un neodiplomato è una sorta di macchina che si alza tutte le mattine. E tutte le mattine è in grado di fare un progetto nuovo. Quando invece per fare un progetto che sia degno di questo nome bisogna conoscere a fondo la tecnica del progettare... Che, se ambisce alla qualità, è una tecnica alchemica e lunga.

Ci vengono poi raccontate barzellette sul «lavoro interdisciplinare», il «lavoro di gruppo»... Nella mia vita quel poco di lavoro interdisciplinare che ho trovato è stato solo nei casi in cui tutte le persone facevano pesanti autocritiche sul proprio lavoro. Ma il lavoro interdisciplinare non l’ho invece mai trovato quando plurilaureati arroganti propinavano banali ragioni manualistiche.

In positivo dico comunque questo: se un insegnante ha parlato appassionatamente, per un anno intero, di un paio di capolavori che l’hanno colpito al cuore, se, soprattutto sono state eliminate le lezioni sul «marketing» in luogo di quelle sui rapporti di produzione, allora le probabilità di riuscire in un lavoro di qualità aumentano.

A proposito dei corsi di marketing, pensate un momento alle due culture regine di questo secolo: fisica e biologia. Siamo tutti d'accordo che l'intelligenza di questo secolo è nella fisica e nella biologia. In questi corsi sia il professore che gli allievi sanno che non tutti i laureati prenderanno il premio nobel, che non tutti i laureati diventeranno professori, che, diciamo un 50% di loro farà il commesso viaggiatore andando di farmacia in farmacia a proporre medicinali.... Ma lì c’è una dignità – forse perché le scuole di medicina sono più antiche –, lì non si fa un corso di marketing...

Ecco dunque il nocciolo di ciò di cui stiamo parlando. Stiamo parlando di qualcosa di talmente vergognoso che se vado al Politecnico di Milano scopro che ormai le tesi di architettura sono tenute dai grafici. E la tesi consiste e viene valutata solamente nella sua forma di presentazione generata dal computer.

Stiamo quindi parlando di questo orrore. Ma quando dico a dei giovani: «guardate che qui c’è la fine del mondo...». Non mi sembra di avvertire una risposta.
Quando è finita la guerra avevo esattamente tredici anni e nelle città come Milano quasi la metà degli edifici erano stati abbattuti. Milano allora era il luogo, l’unica città italiana che potesse definirsi internazionale. Ma questo non perché ci fossero i giapponesi e gli svizzeri, ma perché c’erano i pugliesi e tutti i disertati del sud dell’epoca che andavano a Milano. Uscivano dai loro posti che sapevano di funghi piccanti e stupidaggini del genere e venivano a costruire la cultura nuova, a costruire il mondo nuovo.
Ma forse ogni giovane, ha l’imprinting che si merita...

Per me progetto vuol dire cambiare il mondo. Il progetto è una negazione e questo me lo rafforza tutta la cultura: da quella letteraria a quella scientifica. Tutta la cultura è negazione. E solo una società degli imbecilli, di zombi, di nati morti, può pensare che il soggetto sia affermazione...

Lo so, sollevo problemi che sembrano difficili. Qualcuno potrebbe dire «ci mancava solo un altro progettista bislacco...». Ma io di nuovo ribadisco che è tutta la vita che guardo quei maestri e a quelle cento opere di cui stiamo discutendo. Non conosco nessuna di queste opere che non fosse basata totalmente su valori etici. Opere alla Coppedè non ne conosco. Quindi per fare questo lavoro, bisogna pensare a quei maestri. Sennò non si produce qualità, si produce merda...

Vorrei azzardare una risposta sulla differenza fra design e architettura. La differenza è la stessa che esiste tra la progettazione di un oggetto di vetro e la progettazione di un oggetto di ghisa: una differenza di tipologia.
Non è, o non dovrebbe essere, una differenza dal punto di vista metodologico, dal punto di vista etico.
Diciamo che ci sono differenze ma sono minime. Sono minime perché, per esempio, se parliamo di grandi architetture, c'è un committente che dovrebbe essere preparato. Il progetto di design ha come referente un committente inesistente. In realtà l'unico committente che ha un progettista di design è il negoziante. Colui che vuole acquistare oggetti per venderli.

Durante le conferenze cerco sempre di porre il problema nei termini di quale sia il significato di questo lavoro, per capire se sia possibile trovare compagni di strada. Sono convinto che quelli che si oppongono al sistema alle regole in atto, sono in condizioni «patologiche»... ma questa è anche la loro forza. Quello che faccio – quest’ultimo mio libro così come l’ultimo mio progetto –, è cercare di manifestare ciò che evidentemente non è tanto manifesto... Se le cose che sono dentro questo libro appartengono unicamente alla mia soggettività «patologica» senza alcuna utilità alla trasformazione sociale, non varrebbe la pena di fare questa fatica. Non mi interessa di essere celebrato come designer... Il problema è se c'è qualche elemento che possa essere di aiuto ad altri.

Mi si potrebbe obiettare che nel mio insistere sui capisaldi della storia, sugli archetipi della qualità vi sia un atteggiamento aristocratico. Non è così. Studiando una lingua, ad esempio, si vanno a cercare gli esempi migliori... Lo stesso deve essere per lo studio del progetto.

Ho cominciato questo libro con un capitolo intitolato La storia del design a colpi di accetta. Ho dovuto per forza fare una storia di come nasce il design. Perché ad ascoltare le chiacchiere delle riviste e del Salone del Mobile, sembra che tutti si siano dimenticati le radici più proprie e reali.
Occorrerebbe inoltre andare a fondo al significato delle parole.
Quando Alessandro Mendini parla di design banale, non è possibile far finta di nulla. Invito tutti a guardare su un vocabolario che cosa debba essere inteso per «banale». Il suo significato essenziale rasenta l'osceno. Non si tratta di una parola leggera, divertente. Vuol dire «ignorante», vuol dire «mal fatto», vuol dire «rasoterra», «nulla». Quando Mendini dice «l'utopia del movimento moderno non può essere realizzata», dice una cosa che sappiamo da 500 anni. E prosegue dicendo «dunque se deve essere merda che sia merda».
Non a caso il progetto «banale» interessa tanto.
In Germania si dice che un cubo è l'oggetto più semplice dal punto di vista industriale. Invece il cubo è la cosa più artigianale che esista. È impossibile produrre industrialmente un cubo. Siamo ancora a questi livelli didattici...
Capite bene che ho dovuto per forza scrivere una storia del design. E in questa storia un ruolo fondamentale lo gioca la rivoluzione francese. L'unica rivoluzione che dovrebbe essere insegnata a scuola. Perché rovescia l'ideologia del mondo. La rivoluzione francese dice infatti che: il paradiso può essere realizzato in terra.
La rivoluzione industriale non nasce dalle invenzione delle macchine. Ci sarebbe potuta essere anche una diversa rivoluzione industriale senza le macchine. La rivoluzione industriale nasce dal fatto che prima della rivoluzione francese i beni di consumo non esistevano. E dopo quei beni bisogna produrli a basso prezzo. Per questo occorre separare il lavoro di esecuzione da quello molto più costoso, della progettazione. Quel basso prezzo porterà poi la nascita del socialismo che non nasce a caso, ma nasce perché le persone sono incazzate di dover vivere in modo alienato.
Quindi queste cose andavano dette. Se dobbiamo uscire dalla ridondanza, dobbiamo accordarci su alcune parole e termini.

Per quanto mi riguarda i bisogni della gente dei compratori sono sempre osceni. Gli unici bisogni reali sono quelli dei venditori. Gli unici bisogni sono quelli che si riferiscono alla qualità del lavoro di produzione.
Tutta la città è un luogo di progettazione, di produzione e vendita... Se il design pretende di migliorare la qualità della vita non può che migliorare le condizioni di lavoro di chi è costretto solamente a produrre e comperare.

Sistematicamente in Progetto e passione ho parlato di bisogni degli operai e dei bisogni dell'imprenditore... e ho parlato degli infiniti riferimenti al progettare.
Che cosa significa ergonomia? Mi vengono i brividi quando sento che in un corso di design si parla di ergonomia come scienza a parte quando invece è ovvio che il progetto è di fatto solo ergonomia, indipendentemente dall’impiego di questa parola. Il progetto è per gli uomini e quindi necessariamente deve tener conto delle misure degli uomini. Non capisco cosa voglia dire architetto ergonomo.

Ancora nel libro ho parlato della metodologia. Ho cercato di spiegare che le funzioni che concorrono alla realizzazione del progetto sono come i nomi di Dio: miliardi di miliardi.
E poi ho dato qualche suggerimento.
Bisogna sapere scrivere le forme in fretta nello stesso modo in cui si possono scrivere le lettere alla zia o alla fidanzata. Bisogna poter tradurre, disegnare in fretta, bisogna conoscere il «teorema di Monge», possederlo nel sangue, anche se poi si utilizzerà il computer...
Tutti sono d'accordo nel ritenere necessario l'esercizio costante in tante discipline. Ad esempio le arti marziali o il tiro con l’arco. Nel tiro con l'arco occorre ogni giorno fare esercizi. È possibile riuscire a ballare o fare qualsiasi cosa semplicemente leggendo un manuale? Non dico che non sia utile, ma è necessario un esercizio costante... Ho sempre raccontato quali erano gli esercizi da fare per imparare a progettare, sono semplici, ma non mi sembra che nei corsi universitari – e non –, la loro necessità per la formazione dei designer sia un fatto acquisito. Anzi tutt'altro. Forse perché qualcuno non so dove – a Roma, o ad Ulm probabilmente – ha raccontato che leggendo sui manuali si impara a progettare...

Continuo a sollevare problemi. Oggi i diplomati al di sotto di 35 anni in Europa sono oltre due milioni. Io stesso ho meno contrattualità oggi di quando avevo la loro età. Ed oggi vivo una realtà di espropriazione del progetto. Non sto dicendo che non ho richieste di lavoro. Ne ho tantissime. Ma non posso più avere il controllo completo del progetto. Anzi, a quel che vedo, io sto per essere completamente espropriato delle mie condizioni di progetto. Ho tantissime richieste di lavoro, ma non posso più avere l'oggetto su cui sto lavorando, di cui ho fatto schizzi, modelli e disegni sul mio tavolo. L’oggetto mi viene portato via. Perché ormai da talmente tante scuole escono un’infinità di specialisti, esperti in modelli, in materiali ecc...

E una volta al mese – sto parlando di un solo progetto – vengono da me 6-7 tecnici. Io sono molto combattivo e gli incontri possono durare anche 8 ore. Poi, dopo avermi chiesto tante cose, se ne vanno. A questo punto non sono più in grado di influire minimamente sul loro lavoro e dopo un mese gli stessi tecnici ritornano con il progetto completamente snaturato. Facendo ricalchi dissimili dalle mie proposte, dicendo che non si possono fare particolari o realizzare certe soluzioni per determinate ragioni...
Questa seconda volta combatto nuovamente ma, ormai il progetto ha iniziato a perdersi per strada...
Sto parlando della progettazione, che so, di un bicchiere... un progetto non più complicato di quelli che ognuno di noi deve o dovrà affrontare: una sedia, un attaccapanni, un cestino per la carta, una bottiglia... Questi sono i progetti che da cinquant'anni mi vengono richiesti. E questi sono i prodotti reali che richiede il mondo del design.

Un progetto ha una madre e un padre: l’artista, il cantore dell’utopia e l’imprenditore, la tigre del mondo reale. Un progetto riesce bene quando l’imprenditore accetta almeno il venti per cento di utopia e se partecipa con qualche passione allo sviluppo del progetto. Quando a questo sviluppo sono delegati i suoi tecnici, addestrati a negare qualsiasi implicazione etica, il progetto intristisce miseramente...

Alcuni anni fa è diventato di moda il minimalismo... perché tutto deve essere a forma di cubo... La realtà è che tutto deve essere fatto a forma di cubo perché sembra facile...
... Qualcuno si arrabbia... Sto dicendo la verità. L’ingenuità è una sana caratteristica della giovinezza... Che con gli anni, battendo la testa contro le contraddizioni del mondo reale si trasforma in sapere determinato. Nel senso che, della ingenuità iniziale vengono mantenuti i valori etici perdendo le implicazioni dovute a misera e totale ignoranza.













Progetto e passione
Collana «Saggi. Arte e letteratura»
172 pp.
Bollati Boringhieri 2001, Torino
ISBN: 8833912981
ISBN-13: 9788833912981




Enzo Mari
P.le Baracca, 10 - 20123 Milano
phone 02-4817315 / fax 02-4693651
mari@enzomari.it


Enzo Mari. Nasce a Novara nel 1932. Sviluppa la sua formazione con gli studi all'Accademia delle Belle Arti di Milano, a cui accompagna già dagli anni Cinquanta un'intensa attività artistica, con mostre personali e collettive in gallerie e musei di arte contemporanea. Nel 1963 coordina il gruppo italiano «Nuove tendenze» e nel 1965 ne cura la mostra di arte optical, cinetica e programmata alla Biennale di Zagabria. Partecipa individualmente a diverse edizioni della Biennale di Venezia e della Triennale di Milano. Parallelamente inizia l'attività di design, prima nell'ambito della ricerca formale personale, e quindi in collaborazione con numerose industrie, nei settori della grafica, dell'editoria, del prodotto industriale e dell'allestimento mostre.
Caratteristica della sua opera, internazionalmente affermatasi tra le più rappresentative del design italiano, è la continua ricerca e sperimentazione di nuove forme e significati del prodotto, anche in contrapposizione con gli schemi tradizionali del disegno industriale.
Nel 1971 partecipa con un intervento critico alla mostra «Italy: the New Domestic Landscape» al MoMA di New York. La sua singolare posizione di artista-design è documentata nella molte pubblicazioni dedicate al suo lavoro, come pure negli interventi in importanti istituzioni dedicate al suo lavoro, come pure negli interventi in importanti istituzioni; tra queste l'Associazione per il Disegno Industriale, di cui è Presidente, dal 1976 al 1979. Gli è stato assegnato tre volte il premio Compasso d'Oro. Sue opere e oggetti sono nelle collezioni di diversi musei di arte contemporanea: «Galleria Nazionale d'Arte Moderna» a Roma, «Moderna Museet» di Stoccolma, «Stedelijk Museum» di Amsterdam, «Musèe des Arts Décoratifs», «Kunstmuseum« Düsseldorf, «Kaiser Wilhelm Museum» Krefeld, «Museum of Modern Art» New York.
Una grande mostra personale gli viene dedicata nel 1983 dal «Centro Studi e Archivio della Comunicazione» dell'Università di Parma, dove sono conservati gli 8.500 disegni ed elaborati del suo archivio, da lui donati al CSAC. Più recentemente la sua attività si estende alla ricerca e progettazione per l'arredamento urbano (Comune di Milano, sistemazione della piazza del Duomo) e alla didattica, svolta con conferenze e cicli di lezioni in Italia e all'estero, tra cui i corsi tenuti all'istituto di Storia dell'arte dell'università di Parma e alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.



testo: 
Enzo Mari 

I.

II.
III.

IV.
V.

VI.
VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
XIII.

XIV.
XV.

XVI.
XVII.

XVIII.
XIX.

XX.
XXI.

XXII.
XXIII.

XXIV.
XXV.

XXVI.
XXVII.

XXVIII.
XIX.

XXX.
XXXI.

XXXII.
XXXIII.

XXXIV.

 




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