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 MINIMAL SOUL. LA SILENZIOSA SEMPLICITÀ DEL DESIGN
 Intervista a Mario Ferrarini

Mario FerrariniLaureatosi nel 2004 in Disegno Industriale al Politecnico di Milano – su IdeaMagazine.net ha pubblicato la sua tesi di laurea (Waterfull Living Concept: Abitare il bagno), proponendo una soluzione innovativa per l'ambiente bagno e la conseguente relazione di questa con l'intera abitazione –, Mario Ferrarini (Como, 1978 - marioferrarini.com) ha iniziato subito dopo a esercitare la professione di designer e consulente per numerosi studi internazionali di architettura e aziende di design di prodotto. Nel 2007 ha aperto il suo studio, collaborando con Antoniolupi, Desalto, Living Divani, Jacuzzi, deSede, Poltrona Frau - solo per citare alcune delle aziende in cui ha operato in questo decennio - in diversi progetti che spaziano da prodotti industriali per l'arredamento, alla progettazione di stand fieristici, fino all'oggettistica di design.




 Federica Capoduri:  A poco più di una decina d'anni dalla pubblicazione, sul nostro sito, della tua tesi Waterfull Living Concept: Abitare il bagno nei tuoi lavori si possono già leggere le tracce coerenti di un metodo: pragmatico, solido, tangibile, attento al necessario, fatto di ricerca ma anche d'intuizione. Per citare Franco Purini, il tuo iter progettuale sembra seguire «una rivoluzione "moderata" intesa a produrre "cose amabili", la cui ordinarietà non trascende i confini di una "arte positiva che evolve verso soluzioni concrete", ma anzi li sottolinea e rimarca». Come ti senti e come ti raffronti a questo mestiere, che tipo di approccio hai nei confronti della progettazione?

 Mario Ferrarini:  Allo scoccare del 10° anno di attività, sancito dal passato Salone del Mobile in cui abbiamo con Antoniolupi proposto quella che oramai possiamo definire un'icona dell'azienda, la vasca Dune, mi sento in dovere finalmente, con un filo di respiro e spirito critico, di fermarmi; soffermarmi per osservare me stesso dall'esterno. In effetti devo dire che è stata una bella apnea in un percorso non scontato, difficilmente programmabile e molto introspettivo. Alla fine le nostre idee sono figli che consegnamo amabilmente ai nostri clienti.
Tutto questo per dire che certamente l'esperienza mi aiuta sia nella progettazione che nelle relazioni rispetto alla visibile insicurezza degli esordi, ma i processi sono pressochè identici. Perché il metodo rimane radicato nelle origini, pur evolvendosi, influenzato com'è ovvio dal tempo, dal carattere, dalle esperienze e anche dai trend, nonostante questo termine mi inquieti sempre essendomi formato, e innamorato, di quella che chiamo "scuola Citteriana" (Antonio Citterio, ndr).
Il trend è un treno per lunghe distanze, provo così a confrontarmi esattamente augurandomi che le idee perdurino (almeno finchè non progetterò qualche arredo edibile…). Oggi certamente posso far leva su una maggiore complicità con i clienti storici ma anche su quelli nuovi ricercati dove il curriculum vitæ racconta più di ogni parola un linguaggio che, se affine col cliente, viene condiviso su nuovi progetti.
Il metodo rimane quello classico: ricerca - confronto - schizzi - rendering e/o modelli - confronto - confronto - confronto - pazienza - confronto ecc. È molto importante capire non tanto come sia disegnato un prodotto ma quale vantaggio competitivo può generare per l'azienda partner. La creatività è uno strumento per raccontare qualcosa di nuovo sì ma anche per ampliare la proposta, gli orizzonti commerciali, i clienti, il fatturato (che brutta parola "fatturato"! Le riviste non ne parlano più… è tutto trend, fashion, style, mood, calzini a pois ecc.).

 Federica Capoduri:  Un metodo che funziona, a giudicare dalle numerose collaborazioni attivate in questi anni con aziende di livello. Ma essendo un designer giovane (aggiungo indubbiamente, visto che tuttora gli ultra-cinquantenni sono annoverati fra le "promesse" della disciplina), quanto ti condiziona questa etichetta?

 Mario Ferrarini:  M'influenza tanto quanto portare un cognome italiano... Oggi la necessità delle aziende nel sentirsi internazionali spinge a interessarsi maggiormente a designer stranieri. Poco male. Più complesso lo start up conoscitivo, maggior sorpresa quando, e mi permetto una brevissima parentesi autocelebrativa, i clienti sono soddisfatti dei risultati.
Amabile è un concetto da te suggerito e perfetto nella descrizione della mia progettualità che considero una sorta di equilibrio sancito tra idea e risultato.

 Umberto Rovelli:  Una questione su cui non esiste molta letteratura riguarda gli inizi dell'attività. Come il designer affronta per la prima volta il contraltare operativo è un tema poco sondato e ancor meno raccontato. Per alcuni (Ulian docet) l'esperienza lavorativa è preceduta da una più o meno lunga attività espositiva, magari vissuta collettivamente. Per altri accedere al lavoro è frutto di combinazioni più o meno casuali, per altri ancora l'esito di una granitica determinazione. Ovviamente non esiste una modalità privilegiata e quindi è bene predisporsi all'ascolto e prendere appunti per tentare di abbozzare una casistica consistente da cui poter dedurre in futuro le costanti più ricorrenti della "fenomenologia degli inizi" di questa area disciplinare – comunque la si sia intesa ieri e la si intenda oggi. Nel tuo caso, qual è stato il primo approccio con le aziende e quale, tuttora, preferisci adottare con gli imprenditori? Puoi raccontarci qualche tua esperienza?

 Mario Ferrarini:  Prima di parlare degli esordi con le aziende, nel mio caso sono certo che la progettualità sia un prolungamento della comunicazione interpersonale. Uno strumento ulteriore conoscitivo soprattutto in virtù della mia passata estrema timidezza: 4 "r" mosce tra nome e cognome, una introversione che trasformava un Ferrarini in una Ferrari rossa di imbarazzo. Ero preda di facile ironia, quindi forse le idee, i progetti, sono stati un ottimo strumento sia conoscitivo che di comunicazione.
Ricordo benissimo la prima volta che contattai un'azienda – credo fosse Pallucco molti anni fa per una libreria che, poi anni dopo, è migrata facilmente, attraverso lo studio dove collaboravo, in un'azienda storica della Brianza. Ricordo benissimo la difficoltà semplicemente di alzare il telefono, rendendomi poi conto fossero solo dei limiti che, giustamente per inesperienza, mi imponevo...
Le fiere rimangono comunque il momento per me più opportuno dove incontrare clienti, specie per un confronto diretto ma leggero, né aggressivo, né tedioso, magari da riprendere e approfondire in un secondo tempo.

 Federica Capoduri:  Ricerca formale, di mercato, di materiali. Anche scorrendoli con una rapida occhiata, nei tuoi progetti s'individua immediatamente un esposto equilibrio dove tecnica, estetica e funzionalità si amalgamano in un disegno plastico netto e pulito. Cito alcuni esempi: le varie sedute per Crassevig - sgabello Otto, sedie in legno Mixis e Kira -, i complementi per Living Divani - tavolino Step e sgabello Kalè -, i letti per Dorelan e Poltrona Frau - Iris e Giselle. Un calibrato gioco di dettagli che rasenta il silenzio formale e che si ritrova anche nei prodotti più recenti: lo sgabello impilabile Myg, il tavolo allungabile Beam per Desalto e il tavolo Pipe per Potocco. In tutti l'influsso geometricamente razionale di stampo nordico sembra una matrice irrinunciabile…

 Mario Ferrarini:  Vivo a Como dove il razionalismo di Terragni e Cattaneo mi meravigliano ancora come la prima volta. Si tratta forse di semplici affinità che ci legano a linguaggi che caratterialmente ci rispecchiano o diventano un traguardo cui ambire idealmente.
Razionalismo e minimalismo in parte sono, e spero lo siano, visibili nella mia lettura dei progetti ma, come mi disse sorprendentemente un amico professionista tempo fa, i miei progetti hanno un carattere più soul: ripulito, razionale, ma più caldo, più armonico, rotondo e accogliente.

 Federica Capoduri:  Sono in particolare due le aziende toscane del tuo portfolio: Antoniolupi - con cui lavori molto attualmente - e Bitossi Ceramiche, con cui hai lavorato alcuni anni fa. Che osservazioni (e sensazioni) puoi riportarci al riguardo?

 Mario Ferrarini:  L'intercalare toscano è notoriamente terapeutico e accompagna piacevolmente gli incontri. A partire da queste mie esperienze, in generale credo che il rapporto funzioni nel momento in cui si abbandona il primo approccio formale e ci si avvia a sentirsi parte di una famiglia. Una rete "fiduciaria" di relazioni abbastanza salda da non precludere pensieri anche critici ma soprattutto veri e propri sfottò. Esiste un forma mentis che ti suggerisce come per un toscano tutto ciò che si fa lo si fa cercando di farlo divertendosi. Sottoscrivo.

 Federica Capoduri:  In base alle esperienze maturate con la svizzera deSede e la spagnola Reyvarsur, quali diversità che rilevi tra le aziende italiane e quelle estere?

 Mario Ferrarini:  Reyvarsur è un'azienda che realizza componenti e rubinetterie per birra, vino e cidro. Sono stato chiamato per progettare dei nuovi elementi e sono felice di aver trovato la chiave per raccontare come (ed è parte dello slogan di presentazione della collezione Tukuur), non volevamo disegnare componenti bensì nuovi concetti. È nata così una collezione dove il cliente ha la possibilità di customizzare il proprio rubinetto attraverso la scelta di maniglie, rubinetti ed espositiori del brand. Questa cultura sistemica rappresenta il primo episodio nel settore e una leva su cui il mio lavoro si fonda: non esiste un unico prodotto ma un sistema trasversale che offra, sulla base di un concept, numerose soluzioni per le diverse esigenze. In questo caso ci sono stati pochissimi incontri operando quasi esclusivamente su skype e mailing.
Con deSede invece il rapporto è stato molto vissuto. Ci siamo relazionati quasi quotidianamente e gli incontri sono stati numerosi, per cui grande coinvolgimento da entrambe le parti.
In generale ogni azienda ha una sua anima ed è difficile fare paragoni. Credo all'estero siano inizialmente più razionali, formali se vogliamo, per poi ammorbidirsi e affidarsi ai tuoi consigli nel momento in cui anche tu inizi ad affidarti alle loro competenze.

 Federica Capoduri:  Il tuo Tukuur offre peraltro una chiara dimostrazione di come un designer con rare doti di sintesi riesca a difendersi egregiamente in settori in cui l'essenzialità funzionale deve aver modo di contaminarsi agevolmente con la personalizzazione. Dove la semplificazione strutturale equivale ad aprire valenze distintive e si regolamenta molto sulla simbologia...

 Mario Ferrarini:  A volte è possibile progettare con chiari rimandi simbolici. Alcune versioni del progetto Tukuur ricordano una tromba e diventa un richiamo che deve incuriosire, attirare, far sorridere. Devo dire che ho giocato un all in importante con questa azienda che mi chiese delle maniglie, dei rubinetti, degli elementi. Onestamente non ho trovato un senso se non offrire alternative funzionali a ciò che già disponevano. Il mio apporto quindi era tecnico ma privo di anima. Sono andato fuori tema o forse ho trovato per la prima volta un tema, che lega queste componenti come un corpo dotato di un pensiero. Ho pensato che non sarebbe stato compreso o forse avrebbe decretato un nuovo inizio per l'azienda. Inaspettato per il cliente, ma accolto come una grande novità che – avendo prima e dopo nelle fiere di settore verificato dai diversi player – personalmente trovo unica nel suo genere.

 Federica Capoduri:  Gillo Dorfles – scomparso alcuni mesi or sono – in un testo del 2009 aveva scritto: «Ogni nostro sguardo non deve soltanto osservare quanto ci circonda, ma deve permetterci di vedere anche quel che di solito l'occhio non guarda». Considerazione che espande e riqualifica il tema del progetto dall'ambito del "mostrare" quel che già è presente dinanzi a noi a quello del "far percepire" e proporre soluzioni formali convincenti per dimensioni e significati "altri" rispetto ai consueti, nel mondo intorno a noi. Nella tua produzione, due esempi su tutti mi sembra possano essere citati in proposito: lo specchio Galileo disegnato per Living Divani – che, ondeggiando sul suo fulcro-gancio materico, permette di "vedere oltre" ciò che di norma osserviamo frontalmente – e la composizione materica offerta da Ombre progettati per Bitossi Ceramiche – serie di vasi e candelabri che propongono un'ombra tangibile e terrena impressa direttamente sul materiale oltre alla vera e propria ombra in aggetto. Entrambi i prodotti, superando il senso immediato del loro utilizzo, potrebbero essere annoverati nel ristretto elenco di "pezzi d'oltre" regalatici in questi anni da pochi grandi progettisti come Paolo Ulian, Lorenzo Damiani, Odo Fioravanti, Gabriele Pezzini, solo per citare tuoi contemporanei. Quanto e in che misura i tuoi progetti sono il risultato di una ricerca tesa a «vedere anche quel che di solito l'occhio non guarda»?

 Mario Ferrarini:  Il micro e il macro rientrano nella medesima lettura. A volte alcuni miei oggetti sono evidenti nella loro diversità in quanto il dettaglio è macro, è palesato ed evidente. Spesso però gioco con la discrezione, con la sorpresa di scoprire piccoli dettagli che rimangono comunque significanti, riconoscibili, identificativi. Dipende tutto da quale distanza li si osserva; quale intensità e interesse.
I miei prodotti rispecchiano la mia discrezione nella vita, su questo ne sono certo. Alcuni come Galileo sono più evidenti e sorprendentemente si genera una connessione molto più stretta con il designer. Ma non è fondamentale. La progettualità è varia, per non dire casuale, ed è frutto di variabili che cambiano ogni giorno.
Cerco sempre dove possibile di animare gli oggetti, di dargli vita, come i Vasi Litigati – per Bitossi Ceramiche (2010) – dove il cappello consente di instaurare un dialogo o se divergenti, di farli litigare, appunto. O come la vasca Dune, un cerchio perfetto in pianta da 172 cm (nessuno se ne accorge) che genera l'illusione innanzitutto di non essere un cerchio, ma ancora di mutare sempre a seconda del punto di vista. Anche il movimento è un altro tema che riconosco spesso nei miei progetti.

 Umberto Rovelli:  A proposito di movimento, con Vasi Litigati hai pensato d'inserire nel progetto una variabile aperta: un coperchio a forma di cappello su base sferica che come tale non è mai stabile o uniforme nella stessa posizione. Ne hai ricavato una sorta di corredo vivo, quasi un coro di sfondo, fatto di caratteri diversi, disposti a contrasto e accordati. Comunque mai uguali.

 Mario Ferrarini:  I Vasi Litigati sono tra i primi esempi del tentativo di animare gli oggetti dando movimento alle mie creazioni. Mi sono innamorato di questo cappello che consentiva un dialogo o la negazione dello stesso quando divergenti. Col senno di poi porterei l'operazione a una riduzione ulteriore dei dettagli sul vaso per lasciare attenzione focalizzata sul cappello, vera anima del progetto.

 Federica Capoduri:  «Mi piace considerare la squadra come un organismo, dove tutti gli organi sono vitali e in relazione diretta gli uni con gli altri. Sono in costante ricerca della realizzazione di una definizione: egoismo di gruppo. Questo ideale lo rincorro non solo nella gestione degli atleti ma anche nella organizzazione dello staff che è una vera squadra nella squadra». Astraendo dall'ambito sportivo, cui si riferisce l'autore di questa frase – un allenatore di pallavolo famoso per le vittorie riportate a livello mondiale –, vorrei sapere da te se e quando hai preferito adottare approcci "corali" e sinergici al progetto di design industriale. Ad esempio, tu lavori autonomamente o hai altri collaboratori con cui ti confronti, anche ruvidamente o comunque con vigore, nel corso di ogni fase progettuale?

 Mario Ferrarini:  Sono sempre alla ricerca della condivisione ma mi rendo conto di come la mia generazione abbia tutte le competenze necessarie per poter arrivare alla definizione più minuziosa di un'idea (anche attraverso programmi di ingegnerizzazione, grafica, modellazione ecc.). Questo "potere" di definizione comporta però, come contraltare, una forma di sensazione di completezza che può sfociare – e, di fatto, spesso sfocia –, in un atteggiamento di chiusura. Voglio dire che le potenzialità di supervisione e verifica del progetto di cui oggi disponiamo può determinare non tanto una sorta di presunzione, quanto piuttosto di completezza, ovvero di non necessità di "altro da sé" che porta ad assumere un atteggiamento di graduale chiusura nei confronti degli apporti altrui dovuta all'abitudine del controllo su tutto il processo. Un approccio che paradossalmente elimina proprio la necessità di un aiuto ulteriore. Necessità che, nel tempo, determinerebbe il primo passo per la "costruzione" di un proprio team.
Personalmente ho lavorato per molti anni da solo, ma certamente confrontandomi e avvalendomi anche del contributo di colleghi, in quanto lo start up del mestiere, in termini di rientro economico, è molto lungo e incerto. Basta immaginare che un progetto, presentato e confermato, può impiegare persino 2-3 anni prima d'essere presentato al pubblico e 1-2 anni ulteriori prima di entrare a regime di vendite.
Oggi è impossibile pensare di occuparsi di tutto, i clienti e i progetti sono aumentati e, varcata la soglia dei 40 anni, sento la necessità di organizzare un team che possa funzionare idealmente in autonomia. Oggi siamo in tre all'interno dello studio, ancora pochi a mio avviso, anche in funzione di tutti i lavori da fare, i clienti con cui desidero instaurare rapporti, per offrire o sviluppare le idee che vorrei formalizzare insieme a loro. Ma è molto difficile trovare non dico competenze, quanto piuttosto affinità con il proprio linguaggio progettuale.

 Federica Capoduri:  Sempre a proposito di linguaggio e di "lingua" – in senso letterale ma anche "strategico" –, vorrei comprendere meglio cosa ti ha determinato ad adottare solo l'inglese nel tuo sito web. Puoi illustrarci i motivi di questa scelta perentoria?

 Mario Ferrarini:  Una volta il problema era l'esatto contrario, ovvero non disponevo di tutte le traduzioni a regola d'arte e per questo motivo il primo sito era unicamente in italiano, e aggiungerei – per rispondere alla tua provocazione –, "un sito nazionalista" e "made in Italy". Nell'attesa, perdurata un paio d'anni, il sito è stato integralmente rivisto e lasciato unicamente in inglese.

 Federica Capoduri:  Ammetto che, se da un lato la scelta univoca dell'inglese è anche una valutazione comprensibilmente legata all'attualità che posso condividere, d'altro canto trovo l'opzione (mio opinabilissimo parere) un po' fredda e drastica per il povero utente italiano, scalzato ancora una volta dagli anglosassoni…

 Mario Ferrarini:  Ti soffermi su un aspetto importante ma, a mio avviso, non fondamentale in questa revisione del sito web. Fondamentale nella sua progettazione è stato piuttosto cercare di preservare e trasmettere una coerenza di fondo con la necessaria laconicità: ovvero raccontare nel miglior modo e nel minor tempo possibile, attraverso immagini di prodotti e dettagli, un'anima progettuale come se fosse un unico percorso espressivo.
Oggi l'immediatezza ha un ruolo fondamentale e spesso si confonde e nasconde dietro una sorta di superficialità dovuta anche a una reale scarsità di tempo disponibile all'analisi.

 Federica Capoduri:  Hai ragione; tramite il web l'instantaneità comunicativa dei tuoi singoli prodotti, così come il soul complessivo del tuo lavoro ultra-decennale risulta chiarissimo.

 Mario Ferrarini:  Il nostro sito è definito interamente nella prima pagina, non serve altro. Ma chi vuole approfondire può serenamente visionare altri scatti e i testi esplicativi.

 Federica Capoduri:  Tornando al progetto della tua tesi vorrei citarne un brano: «Waterfull Living Concept si sviluppa intorno all'analisi del locale bagno tradizionale e dei comportamenti che ne sono confluiti all'interno (leggere, telefonare, giocare, cambiarsi d'abito ecc.). A seguito di tale analisi il bagno si prefigura come contenitore asettico e standardizzato, privo del valore primitivo legato alla simbologia dell'acqua. In particolar modo la vasca dovrebbe trasmetterci il senso di protezione che ci richiami alla mente, seppur a livello inconscio, la vita intrauterina, condizione primordiale di assoluto benessere. Una concezione, questa, che si traduce nella contestualizzazione e centralità della vasca, che va a integrarsi con elementi-arredi affini (letto, divano, chaise-longue) per generare una piattaforma conviviale (benessere dato dallo stare bene insieme) nata per deformazione dello spazio». È indubbio che (anche a fronte dei cambiamenti di disponibilità di spazi e abitudini), a più di dieci anni da questo testo, nel mondo dell'abitare sono insorte differenze anche rilevanti (ad es. sono cambiate le tipologie di case e appartamenti, che propongono vari ambienti ma più piccoli – chi trova più ormai le classiche stanze 4x4 metri nella nuova edilizia? E anche il bagno è cambiato: meglio due, anche se piccoli). Cosa pensi dell'attuale condizione abitativa – in particolare dell'ambiente bagno, visto che, progettando per Antoniolupi e Jacuzzi, sei molto attivo nel campo?

 Mario Ferrarini:  Con la fine del millennio precedente si decreta, di riflesso a una ricercata cura di sé stessi – dalla cosmesi, al fitness, alle crescenti spa e il conseguente turismo dedicato –, un maggiore interesse alla rivalutazione dell'ambiente bagno domestico. Storicamente lo spazio funzionale si trasforma, o meglio recupera, come hai evidenziato correttamente, il valore del tempo per se stessi all'interno di un'inarrestabile, crescente vita frenetica. Il bagno diventa il centro della casa, una pausa necessaria dove ricaricarsi. E tutto ciò viene inizialmente palesato, sovradosato e mostrato come forma di vanità, di tempio da esibire, più che da utilizzare. Un atteggiamento che subisce poi (aggiungo, giustamente) un ridimensionamento legato agli spazi e alla funzionalità e il reale utilizzo, ma anche dovuto al fatto che oggi è quasi più facile prendersi una pausa totale, anche da casa propria quindi, in una spa a prezzi accessibili.
Sia con Antoniolupi che con Jacuzzi ho realizzato numerose vasche da bagno ma è indubbio che oggi esse siano dedicate o a mercati dove gli spazi non sono rigidi e contenuti come consuetudine nel nostro paese, o ancora per chi la considera una sorta di scultura domestica: funzionale sì, ma tendenzialmente da esibire.

 Federica Capoduri:  Visitando mostre e showroom, anche di recente, ho registrato mumerosi commenti di rivenditori tesi a far notare come oggi la vasca non sia più comunemente usata. Anche a fronte di mie specifiche richieste su una tipologia che, devo ammettere, prediligo di gran lunga, mi sono spesso sentita proporre seccamente alternative come sistemi doccia enormi e multiaccessoriati. A parte l'imbarazzo di doversi impuntare per scegliere una "vasca" (non credo davvero d'essere l'unica a trovare del tempo/voglia per un bagno a l'ancienne), onestamente sono sollevata dal fatto che qualcuno continui a progettarne e ancor più che ci siano aziende tuttora disposte a produrne. A tuo avviso, in funzione di cosa, soprattutto, le nostre consuetudini circa l'uso dell'ambiente bagno si sono via via modificate?

 Mario Ferrarini:  Qui credo ci sia un errore di fondo nel considerare questa abitudine oramai obsoleta e inutile. Abbiamo a mio avviso dimenticato quanto è piacevole un bagno caldo, anche senza idromassaggio. Con della musica, un libro o un video in streaming. Abbiamo dimenticato come tale pratica sia molto simile al primo bagno al mare sognato dopo un lungo inverno. Abbiamo scordato questa sensazione meravigliosa di estasi. Personalmente, avendola, sento regolarmente il bisogno di immergermi.
Purtroppo è una tendenza in atto e certamente il mercato ne risente nonostante le proposte sempre nuove dei brand, che tra l'altro in termini dimensionali stanno ulteriormente subendo un ridimensionamento (passando da vasche 180x90 a più contenute 150x70 o 120x70 cm), così da consentire comunque la possibilità di inserirla in bagno o in un angolo della camera padronale. Stanno cambiando altre abitudini e mi immagino un futuro dove la cucina anch'essa subirà un ridimensionamento o diventerà una stanza in condivisione con possibli altri condomini (aiuto!), ma osservando noi tutti oggi possiamo notare che mangiamo molto meno a casa perché siamo in giro per lavoro, perché agli aperitivi si mangia ecc. e forse perché, a differenza dei nostri genitori, ci siamo abituati troppo bene…

 Umberto Rovelli:  Visto che ci apprestiamo a concludere e stiamo in un certo senso volgendo lo sguardo al passato per comprendere meglio il futuro, vorrei chiederti se parte delle tue radici "citteriane" hai avuto modo di ri-conoscerle e apprezzarle anche nel lavoro di tre progettisti "locali": Adriano Piazzesi, Mauro Pasquinelli e Carlo Bimbi, che hanno avuto un ruolo importante nell'ambito della storia progettuale della seduta non solo in questa regione – Pasquinelli, in particolare, avendo operato quasi esclusivamente in ambito friulano. A mio avviso esistono robuste analogie stilistico-formali – la forte impronta della scuola scandinava in primo luogo – fra il tuo attuale lavoro, specie nel settore della sedia, e molti degli esiti produttivi riconducibili a questi esponenti di spicco di una ligne claire progettuale toscana applicata al mondo dell'arredo: tutti e tre eredi di una storicamente consolidata capacità di ridurre (e "levare") che nella regione vanta alcuni secoli di exempla assai riusciti anche se non troppo conosciuti e ammirati altrove.

 Mario Ferrarini:  M'inorgoglisce essere affiancato a personalità che hanno definito esempi contract e furniture mirabili. Pur non avendo piena contezza del loro lavoro, ne ricordo più d'uno come riconosciuti modelli di un settore tipologico a dir poco inflazionato. Alcuni di questi "campioni" sono stati anche rieditati di recente, avvalorandone così l'attualità, come conferma di idee connotate da un disegno sempre attuale e quindi senza tempo: come la sedia in legno Mauro di Mauro Pasquinelli, ora nuovamente a catalogo con Established & Sons.

 Umberto Rovelli:  Un altro tema "classico", da decenni quasi del tutto scomparso dal progetto, è quello ancestrale (e centrale) per l'abitare de "il fuoco nella casa". Sull'argomento da alcuni anni ti sei reso protagonista di diverse reprise entrate nel catalogo di Antoniolupi. Cosa ti ha convinto in senso innovativo e cosa in senso tradizionale di questa idea del focolare domestico?

 Mario Ferrarini:  Che meraviglia lavorare su temi inesplorati e mai studiati. La scuola e il contesto quasi ti obbliga a riflettere esclusivamente su sedie, tavoli, divani ecc. dimenticando tipologie se vuoi anche non così inflazionate. E scopri che puoi innovare attraverso nuove riflessioni sul tema. Skema lo considero uno dei miei progetti sacri. Anche qui la logica del sistema consente in un unico progetto di programmare gli elementi, e quindi anche il ritmo grafico, adattandolo allo spazio disponibile, che sia un piccolo living o un open space. In questo senso la logica del sistema consente una sorta di democratizzazione delle idee rendendo il progetto accessibile a qualsiasi spazio. Con Antoniolupi si parte sempre con l'intenzione di realizzare prodotti outstanding e sono convinto che qui abbiamo realizzato una soluzione unica, riconoscibile, identitaria per entrambi (progettista e azienda).

 Umberto Rovelli:  Ancora sull'opportunità d'individuare nel passato tracce spendibili per l'innovazione progettuale, vorrei parlare del tuo Le Gerle, una "sedia-mobile" realizzata per Ethimo nel 2015. In parte zaino-contenitore, in parte seduta in Le Gerle si fondono più funzioni creando un ibrido che però non lascia affatto sconcertati. Viene da dire «Bello, come mai non ci aveva pensato nessuno prima?». Ma è interessante anche come fenomeno di retrodesign, dove l'intreccio di vimini diviene un richiamo esplicito a un sistema di segni e un universo di senso (appartenenti all'ormai morente mondo rurale) il cui ritorno può apparire, per certi versi, "consolante" (o consolatorio). Come sei arrivato a questa sintesi e come viene realizzato materialmente questo prodotto?

 Mario Ferrarini:  Le Gerle nasce per un concorso indetto dalla Fondazione Catella e dalla scuola Cometa, partner Ethimo per la realizzazione e commercializzazione del progetto vincitore. Il tema era una sedia per Milano e solo a sentir la parola "sedia" mi sono posto nella condizione dello spettatore che avrebbe certamente pensato: «Ok bella o no, ma sempre di una sedia si parla».
Bene, l'intenzione era, sulla piazza storica internazionale del mondo della sedia, di proporre un "progetto di rottura" che fosse al passo coi tempi in termini di utilizzo – chiamiamola multifunzionalità o ibridazione –, correlata anche a un'innovazione tipologica ma con un rimando chiaro, riconoscibile, memoria di una cultura rurale. Memoria su cui tra l'altro c'è un ritorno culturale ma anche il desiderio di evidenziare una presa di coscienza necessaria a preservare origini, cultura e memoria in senso generale verso il rispetto anche del territorio e della natura.
Ethimo si è resa disponibile per assecondare ogni mia richiesta, realizzando un cesto in alluminio su cui intrecciare manualmente una fibra sintetica. L'interno è stato rivestito con tessuto idrorepellente, così come il cuscino/chiusura, essendo uno zaino utilizzabile in ogni condizione.
Un piccolo dettaglio a mio avviso significante è l'inversione della apertura/chiusura verso l'interno, quindi verso la schiena, per evitare inaspettati e spiacevoli furti. Una soluzione semplice, che non necessita di chiusure speciali ma è frutto della semplice osservazione e risoluzione del problema.

 Federica Capoduri:  Chiuderei l'intervista citando un altro maestro della nostra epoca, Michele De Lucchi, che quest'anno è il primo dei dieci direttori che accompagneranno "Domus" al traguardo del suo primo secolo di attività. Un suo recente editoriale recava come titolo/dedica quattro punti chiave: Tempo. Cura. Coscienza. Eredità. Vorrei che per ognuno esprimessi il tuo pensiero, in termini di progettazione o di vita… a te la scelta.

 Mario Ferrarini:  De Lucchi era nella giuria del concorso in cui vinse il progetto Le Gerle. Posso ora dichiarare – per la prima volta pubblicamente –, come una delle ulteriori importanti leve su cui un progetto si fonda sia quella di conoscere al meglio il proprio interlocutore, in termini di gusto e desideri, per garantire un maggiore coinvolgimento, chiaramente senza averne certezza ma attirandone certamente l'attenzione.
Il tempo si cura della coscienza che si eredita. La coscienza – stabilita dal proprio io, dalle esperienze, dalla formazione personale e familiare –, è una forma di sofferenza. Il tempo è l'unica certezza naturale che riscalda, stimola e risolve tale forma di sofferenza.
È una visione apparentemente pessimista che invece, a mio avviso, se analizzata nasconde e rivela una forma di sensibilità, che può essere verso le persone, verso la natura, verso il mestiere. Che poi è fatto di persone e di relazioni, di tempo e di pazienza, e di natura – ovvero di vita –, di passione, di desideri, di emozioni e di bellezza.


Mario Ferrarini
www.marioferrarini.com
info@marioferrarini.com




Mario FerrariniMario Ferrarini. (Como, 1978). Laureatosi nel 2004 in Disegno Industriale al Politecnico di Milano – su IdeaMagazine.net ha pubblicato la sua tesi di laurea (Waterfull Living Concept: Abitare il bagno), proponendo una soluzione innovativa per l'ambiente bagno e la conseguente relazione di questa con l'intera abitazione –, ha iniziato subito dopo a esercitare la professione di designer e consulente per numerosi studi internazionali di architettura e aziende di design di prodotto. Nel 2007 ha aperto il suo studio, collaborando con Antoniolupi, Desalto, Living Divani, Jacuzzi, deSede, Poltrona Frau - solo per citare alcune delle aziende in cui ha operato in questo decennio - in diversi progetti che spaziano da prodotti industriali per l'arredamento, alla progettazione di stand fieristici, fino all'oggettistica di design.
www.marioferrarini.com




ottobre 2018 
Certaldo / Como / Firenze 
testo: 
F. Capoduri, U. Rovelli 

Portrait  / 2016 / © photo: Nico Tucci
I.

II.
Mario Ferrarini / Dune - bathtub / 2009 / by ANTONIOLUPI | © photo: [...]
Mario Ferrarini / Vasi litigati - vases series / 2010 / by BITOSSI CERAMICHE
III.

IV.
Mario Ferrarini / Skema - Thermo wood-burning fireplace / 2010 / ANTONIOLUPI
Mario Ferrarini / Kalè - stool / 2012 / by LIVING DIVANI
V.

VI.
Mario Ferrarini / Ombre - vases series / 2012 / by BITOSSI CERAMICHE
Mario Ferrarini / Giselle - bed / 2013 / PROTOTYPE - researching project
VII.

VIII.
Mario Ferrarini / Mixis - wooden chair / 2013 / by CRASSEVIG
Mario Ferrarini / Crystal Line - sink / 2014 / by FRANKE
IX.

X.
Mario Ferrarini / Edonia - bathtub / 2014 / by ANTONIOLUPI
Mario Ferrarini /  Kira - wooden chair / 2014 / by CRASSEVIG | © photo: [...]
XI.

XII.
Mario Ferrarini / Leykos  - freestanding stove, sink, accessories, extractor hood / 2014 / by FRANKE
Mario Ferrarini / Step - table / 2014 / by LIVING DIVANI
XIII.

XIV.
Mario Ferrarini / <em>Le Gerle</em> - backpack|seat / 2015 / by ETHIMO | © photo: [...]
Mario Ferrarini / Otto - stool / 2015 / by CRASSEVIG
XV.

XVI.
Mario Ferrarini / <em>Galileo</em> - mirror / 2016 / by LIVING DIVANI | © photo: [...]
Mario Ferrarini / Tukuur - taps / 2017 / by REYVARSUR
XVII.

XVIII.
Mario Ferrarini / <em>Velis</em> - armchair, lounge & sofa / 2016 / by POTOCCO | © photo: [...]
Mario Ferrarini / Beam - table / 2018 / by DESALTO
XIX.

XX.
Mario Ferrarini / Myg - stool / 2018 / by ANTONIOLUPI | © photo: [...]
Mario Ferrarini / Pipe - table / 2018 / by POTOCCO
XXI.

XXII.
Mauro Pasquinelli / <em>Mauro</em> - chair / 2018 / by ESTABLISHED & SONS | © photo: Peter Guenzel

 
















































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