CERCA IN IDEAMAGAZINE.NET
 

 L'ORDINE DISCRETO DEL PROGETTO INDUSTRIALE
 Intervista a Mauro Pasquinelli

Mauro PasquinelliNato il 27 agosto 1931 a Scandicci (Firenze), fin da ragazzo Mauro Pasquinelli (www.pasquinellidesign.com) ha frequentato la bottega del padre – sapiente artigiano del mobile a Firenze – imparando l'arte dell'ebanisteria. Allievo di Enzo Gori, si è diplomato presso l'Istituto d'Arte di Firenze nel 1951. Nei primi anni '60 ha ottenuto riconoscimenti a diversi concorsi organizzati dalla Fiera di Trieste che ne hanno messo in luce le doti di misurato ed accorto progettista|artefice con una particolare propensione per la tecnica combinatoria ed assemblativa nel campo dell'arredo. Sul finire dello stesso decennio ha iniziato la propria attività di designer presso numerose aziende friulane, operando da allora, per oltre quattro decenni, prevalentemente in quel Triangolo della Sedia dove è tuttora riconosciuto come un maestro del contract e del furniture domestico in legno, materiale di cui ha indagato il fascino misterioso e senza tempo e col quale ha realizzato numerose sedute particolarmente riuscite sia sotto il profilo della forma che del comfort. Socio ADI fino al 2011, è tra i fondatori, nel 2006, di ADI Toscana - delegazione regionale dell'Associazione per il Disegno Industriale. Nel corso della sua lunga e fortunata carriera, Pasquinelli ha partecipato a diversi eventi espositivi ottenendo ulteriori riconoscimenti. Oltre ai premi già menzionati – 1961 Concorso Fiera di Trieste La sedia; 1962 Concorso Fiera di Trieste Mobile componibile; 1963 Concorso Fiera di Trieste Camera per albergo – si ricordano in particolare: 1966 Continental Table Glassware Design Owens-Illinois Inc. Toledo Ohio USA; 1969 Premio speciale la Rinascente Concorso Mia Monza-Abet Print Il laminato plastico nell'arredamento; 1979 Selezione Compasso d'Oro ADI Milano; 1980 ADI Milano - Ministero affari esteri, mostra design italiano Ankara; 1981 Concorso Udine Esposizioni Una sedia italiana per l'Europa; 1981 Segnalazione d'onore Bio 9 Lubiana; 1985 Salone Internazionale della Sedia Udine, mostra Confronto USA-Europa cinque designers USA e cinque europei; 1986 Menzione speciale al Salone internazionale della Sedia Udine; 1986 3° Premio TecnHotel Genova - ADI Milano; 1987 mostra al Craft e Folk Art Museum; 1991 Selezione Compasso d'Oro ADI Milano; 1997 Salone Internazionale della Sedia Udine, mostra Design è progresso; 1998 Patrocinio ICSID International Council of Societies of Industrial Design, mostre di Udine 1999 Köln (D) e Chicago (USA) Neo Com; 2000 Premio Catas. Fra le sue collaborazioni e consulenze si segnalano: 1961 Pozzi e Verga 1968 Pallavisini 1969 Mobel Italia 1972 Lubke KG 1973 Gebruder Thonet AG 1974 Potocco 1977 Malobbia - Misura Emme 1979 Tisettanta 1984 Zevi - Lisa - Bro's 1985 Olivo Livoni 1988 Calligaris 1990 Sedie Friuli 1991 Deta Sud 1994 Deta 1996 Grup Sedia 1997 Emme I 1998 Mathias 2000 Rover Plus 2007 Becker 2008 Casprini.


 Umberto Rovelli:  Come è possibile leggere nel tuo breve profilo biografico pubblicato on-line, operi come designer dal 1960 occupandoti principalmente di progettazione della sedia e, in misura minore, di complementi di arredo. Già undici anni prima, però, come allievo dell’Istituto d’Arte di Firenze esponevi un’assai elegante e snello tavolo-scrittoio alla Mostra dell’Artigianato di Firenze del 1949. Ne deduco un amore per il legno e l’arredo forse ancora più profondo o – piuttosto – una confidenza con il mondo operoso dell’ebanisteria che ti ha coinvolto ben prima della scuola. Mi sembra infatti che consideri tuo padre il primo maestro di forma e operatività. Poiché fare il designer industriale significa anche aderire alla cesura fra mondo del progetto e mondo del fare – assai meno distinguibili nell’universo operativo artigianale –, mi chiedevo come hai vissuto questo «passaggio» e che tipo di accorgimenti hai adottato affinché questa cesura non comportasse una sorta di «tradimento» di quanto fino ad allora avevi imparato in famiglia.

 Mauro Pasquinelli:  Durante la guerra – avevo 12 anni – a ottobre non ero andato a scuola a causa dei frequenti bombardamenti di quell’anno. Un mio professore di disegno venne da mio padre e notando che non mi trovavo a scuola si interessò al mio caso. La situazione non era certo rosea, ma sapendo che mi piaceva disegnare, mi consigliò di frequentare l’Istituto Statale d’Arte di Firenze, ovvero la scuola di Porta Romana. Tra l’altro l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire a settembre ed ero già in ritardo, comunque mi iscrissi e sono uscito nel 1951 con il diploma di Professore di Disegno.
Nel periodo di scuola passavo spesso a bottega da mio padre nel pomeriggio. Le vacanze estive, le passavo come suo aiuto, perciò in quel periodo ho imparato molti segreti del legno, ma soprattutto ho imparato a lavorare con questa materia straordinaria. Siccome all’Istituto d’Arte si faceva molto laboratorio questa esperienza mi è sicuramente servita come perfezionamento.
La mia opinione è che il progetto parte da una conoscenza dei materiali, senza questa non si può progettare, dunque ho sempre ritenuto che questa duplice esperienza di bottega e laboratorio sia stata basilare per la mia attività.

 Umberto Rovelli:  Praticamente anche nel laboratorio apprendevi la tradizione artigiana...

 Mauro Pasquinelli:  Imparavo tante pratiche ordinarie, dalla verniciatura, alla lucidatura, alle colle (a caldo e a freddo), insomma tutte le tecniche di lavorazione tipiche del periodo.

 Umberto Rovelli:  Quello che volevo sapere era se l’insegnamento che ti veniva dato nella scuola di Porta Romana era conforme a quello che andavi imparando in laboratorio o, piuttosto, ti portava a pensare e vedere la pratica artigiana di bottega in modo diverso...

 Mauro Pasquinelli:  La scuola è stata meravigliosa per me. In primo luogo perché mi ha dato modo di frequentare da allievo un architetto del livello di Enzo Gori, che fu, tra l’altro, membro del gruppo Quadrifoglio (con Leonardo Savioli, Leonardo Ricci, Giuseppe Giorgio Gori, ed Emilio Brizzi) vincitore del concorso bandito nel 1949 dal comune di Pescia per il Mercato dei Fiori Vecchio. Un’opera che venne accolta immediatamente con favore: una copertura in cemento armato, che come notava Giovanni Klaus Koenig «sembra librarsi nell’aria» e che segnò, com’ebbe a scrivere giustamente Sergio Polano, «la “rinascita” dell’architettura italiana nel dopoguerra».

 Umberto Rovelli:  Tra l’altro ottenne numerosi riconoscimenti...

 Mauro Pasquinelli:  Ricordo che nel 1953 si aggiudicò il premio S. Paolo del Brasile assegnato da una prestigiosa giuria che vedeva la presenza di Le Corbusier, Gropius, Alvar Aalto ed Ernesto Nathan Rogers...

 Umberto Rovelli:  Dunque, tutta questa eco internazionale si riverberava anche nella scuola e nei vostri progetti...

 Mauro Pasquinelli:  Ovviamente c’era un passaggio di scala, non potevamo cimentarci realizzando proposte a livello urbano. Il mio approccio alla sedia nasce proprio dalla scuola, del resto il formato ridotto della tipologia ne fa un tema formativo ideale – rispetto ad un mobile è un lavoro certamente più gestibile da parte di un allievo – per cui all’Istituto d’Arte almeno tre o quattro volte mi è capitata come esercitazione il progetto di una sedia.
Altri progetti di quel periodo che ricordo sono stati un tavolino pieghevole (che si riduceva alle dimensioni di una valigia) e uno scrittoio in legno che venne esposto alla Mostra dell’Artigianato di Firenze del 1949. Quello fu davvero un sogno per me...

 Umberto Rovelli:  Nei tuoi progetti percepivi di riproporre, rielaborati s’intende, stili di autori allora in voga – come ad esempio Libera, Albini o Ponti – ovvero, più vagamente, modelli di prodotti d’arredo per i quali la nozione di stile o di gusto «moderno» avesse una ripercussione – oppure nulla di tutto ciò? Rivedendo oggi le tue prove e i tuoi saggi di laboratorio appaiono evidenti i richiami alla progettazione del primo dopoguerra, mi chiedo se vi fosse anche allora, da parte tua, una consapevolezza di qualche tipo circa il senso «comune» dei quel vostro progettare...

 Mauro Pasquinelli:  Oggi è molto più facile scoprire le somiglianze che le differenze fra progetto e progetto. La distanza ha cristallizzato e schiacciato come un unico foglio un’epoca che per me era un volume intero di mille pagine da sfogliare, una continua scoperta. Ma credo che quel che caratterizzò maggiormente la mia esperienza formativa fu in primo luogo l’esperienza di laboratorio che univa il lavoro mentale al fare vero e proprio: l’esperienza del progetto come qualcosa che, pur se elaborato mentalmente, diviene cosa reale.
Comunque, per rispondere alla tua domanda, non è che non esistesse una pubblicistica di riferimento. Ma nemmeno era nostro compito – non era cioè un obiettivo della formazione – conoscere quello che potrei definire «il modo» dell’arredamento contemporaneo – parlare di «moda» credo sarebbe davvero improprio. Certo, di quel «modo» eravamo inconsapevolmente imbevuti sia per gli esempi visti – da me – in bottega sia per quelli toccati e provati in laboratorio, sia per quelli utilizzati quotidianamente perché il divario fra design e produzione standard non era così evidente come è stato negli ultimi trent’anni.
A scuola s’imparava essenzialmente a realizzare un pezzo unico: quella che s’intendeva offrire a noi era un’opportunità di lavoro. Dunque s’imparava – in primo luogo con le sezioni – a disegnare, ovvero a rendere comprensibili e condivisibili le nostre idee progettuali agli altri e a tramutare – quindi a capire come si fa – un progetto in un «oggetto». Eravamo ancora un passo indietro rispetto al disegno industriale nel quale, com’è ovvio, si realizza un «prodotto» e dunque, oltre ad interferire con l’industria – all’epoca, tra l’altro, tutta da inventare – occorre serbare informazioni sul gusto, le tendenze, le tipologie più vendute e apprezzate dal pubblico come dati da prendere in considerazione nel progettare. Anche se devo ammettere che non ho mai preso troppo sul serio le richieste del mercato e mi sono sempre sentito un «epicureo» del progetto, o, ancora meglio, un designer «autarchico» che realizzava quel che avrebbe voluto per sé stesso.

 Umberto Rovelli:  Una formazione che, anche se poco consapevole della produzione industriale, era molto concreta, insomma...

 Mauro Pasquinelli:  Nel progetto del pezzo unico non si tendeva ad attivare alcun processo «astratto», il che magari palesa dei limiti per quel che concerne le potenzialità di genere del metodo che veniva appreso. Comunque sia, quel che semmai si cercava di «anticipare» col progetto erano i possibili problemi esecutivi di un prodotto concretissimo che avremmo dovuto realizzare con le nostre mani. Sarebbe poi spettato a noi, in un secondo tempo e con l’età, trarre conclusioni più generali a partire dalle esperienze molto particolari che avevamo vissuto in laboratorio. Io credo di aver serbato l’importanza del dettaglio esecutivo ai fini della corretta risposta funzionale dell’oggetto e – di conseguenza – per il successo del prodotto. Questa concatenazione tra precisione dei dettagli realizzativi e successo produttivo costituiscono un sorta di sintesi del mio metodo progettuale e, credo di aver cominciato ad impararlo e a crederci proprio nella pratica di laboratorio.

 Umberto Rovelli:  Come mai, visto anche il tipo di formazione molto manuale, non hai lavorato con tuo padre?

 Mauro Pasquinelli:  Quando mi sono diplomato, nella bottega di mio padre non c’era forse nemmeno lo spazio necessario. Mio padre, poi, era figlio del suo tempo, le sue necessità di «nuovo» e di novità non uscivano di molto dalla tradizione artigianale, per cui il contributo più originale che avrei potuto offrire all’attività familiare sarebbe probabilmente consistito nella rielaborazione di copie di modelli storici raccolte magari girando per musei. Non faceva per me.
Preferii quindi un altro lavoro. Per 35 anni, prima a Cascina, poi nel Valdarno, quindi nella sede fiorentina, ho svolto praticamente mansioni da architetto presso una società – la Saspi - Tecnitalia – che realizzava impianti di smaltimento rifiuti. Quest’ultimi, oltre ai forni e nastri trasportatori, comprendevano aree mense, spogliatoi, ecc. Per me, dunque, si trattava di progettare e disegnare questi ambienti tecnici di supporto all’attività lavorativa in senso stretto. Talvolta, mi occupavo del disegno tecnico di carpenteria e, più di sovente, della forma esteriore dei forni industriali che l’azienda esportava in tutto il mondo. Un lavoro che non rinnego, ma di sicuro non amavo molto. La mia passione segreta era fare design industriale, anche se solo in seguito, una volta raggiunta l’età per la pensione – ovvero dal 1988 –, ho potuto seguirla con la continuità e la costanza che desideravo.
Prima di tale data ho utilizzato la sera, la notte e comunque il tempo libero che mi restava per disegnare e progettare furniture con assiduità. Durante le vacanze, negli anni ‘50 andavo in Svezia e in Danimarca perché allora il design scandinavo rappresentava la scuola d’eccellenza di riferimento. Arne Jacobsen ed Alvar Aalto, insieme a tanti altri progettisti danesi, norvegesi, finlandesi e svedesi, costituivano per me materia di studio e apprendimento, suscitando curiosità e ammirazione.

 Umberto Rovelli:  Davvero una storia d’altri tempi, pur avendo avuto molti riconoscimenti, i tuoi primi successi nascono da un impegno praticamente dopolavoristico... Per la crescita professionale dei giovani designer – anche da una serie di interviste realizzate con giovani autori professionalmente a cavallo tra i due secoli – mi è parso di cogliere che negli anni ‘90 abbiano svolto un ruolo non marginale sia i concorsi – Young&Design e Opos in particolare con le relative mostre –, sia il successivo Salone Satellite del Salone del Mobile di Milano e, ancora più tardi, il Concorso Ernesto Caiazza all’udinese Salone della Sedia. Per occasioni di lavoro, il ventennio ‘60-’70 – che, grossomodo, costituisce il tuo periodo giovanile – è imparagonabile al ventennio ‘90-’00, eppure anche tu, prima di occuparti di progettazione di sedie in Friuli, hai partecipato e vinto alcuni importanti concorsi. Quali erano in quegli anni le competizioni più seguite dalle riviste?

 Mauro Pasquinelli:  Anche per le ragioni professionali di cui ho detto poc’anzi, farmi conoscere come designer sarebbe stato quasi impossibile senza partecipare ad una competizione nazionale o internazionale. All’epoca i concorsi di rilievo si svolgevano essenzialmente in due località: il primo a Cantù e il secondo a Trieste.
Al primo concorso non ho mai partecipato in quanto si richiedeva di progettare una proposta d’arredo complessiva (soggiorno, camera da letto, ecc.), ovvero un tema assai poco congeniale ai miei interessi e che, anzi, era fin troppo generico per me. Il secondo concorso è stato quello che mi ha offerto la visibilità e, in seconda battuta, l’opportunità di lavorare con aziende friulane.
La prima volta vinsi un premio di rimborso spese sul tema della sedia. All’epoca la Superleggera di Gio Ponti realizzata da Cassina era un modello di «rinnovamento» della tradizione talmente forte e condiviso che era difficile non risentirne l’influsso in ciò che si progettava. Era un progetto che amavo, per cui quella sedia in legno ideata per il concorso La Sedia, della Fiera di Trieste del 1961 – prima realizzata come prototipo nella bottega di mio padre e poi realizzata da Pozzi e Verga – costituiva una sorta di omaggio nel quale ho comunque cercato di distinguermi dall’archetipo di riferimento.

 Umberto Rovelli:  Vorrei capire meglio. Il tuo interesse per la sedia nasce da quel concorso?

 Mauro Pasquinelli:  Anche, ma non solo. Nei due anni seguenti i temi saranno diversi, eppure sia nel 1962 – sul tema del Mobile componibile – che nel 1963 – sul tema della Camera per albergo – ottengo premi e segnalazioni. Riconoscimenti che se da un lato solleticano la mia voglia di entrare nel mondo dell’arredamento d’altro canto alimentano anche le mie ansie perché quasi da subito capisco che qui, nella quasi inesistente realtà industriale di Firenze, non avrei avuto modo di lavorare e produrre su grandi numeri. Sicché, anche a fronte di questi successi, resisto alla tentazione di avviare una carriera con molte incognite ed il rischio concreto di perdere il lavoro. Continuerò quindi per ancora 6-7 anni a disegnare in casa con riga e squadra su una tavola di legno di 200 x 150 cm che appoggiavo sul tavolo da pranzo. E feci ancora passare molti anni prima di permettermi un tecnigrafo.

 Umberto Rovelli:  Dunque, nonostante i riconoscimenti e un interesse reale per la disciplina, non avresti mai creduto che il disegno industriale sarebbe diventata la tua attività?

 Mauro Pasquinelli:  Esatto. Capisco che sembri strano, ma fu proprio così. Evidentemente, pur acquistando regolarmente riviste di settore per mantenermi aggiornato, non riuscivo ancora a vedermi nei panni del designer.

 Umberto Rovelli:  Quali riviste consultavi all’epoca?

 Mauro Pasquinelli:  Innanzitutto Domus – sin dagli anni ‘50 –, quindi, nel decennio successivo Interni. La rivista dell’arredamento, Abitare, ma compravo anche riviste tedesche – Schöner Wohnen, Zuhause, ecc. –, francesi – La Maison Francaise – e americane...

 Umberto Rovelli:  Mi chiedo a questo punto cosa ti abbia veramente spinto a progettare per l’arredamento...

 Mauro Pasquinelli:  Nell’ordine: l’amore per le sedie, il caso, e, come ho detto prima, quel poco di notorietà ottenuta in Friuli con i concorsi ai quali ho partecipato nei primi anni ‘60. Nel 1967 progettai la mia casa e, al momento di entrarci l’anno successivo, pensai di arredarla con quella che ritenevo – e ritengo ancor oggi – una delle più belle sedie che siano mai state progettate, la 101 di Alfredo Simonit  (1) . Era stata pubblicata su molte riviste del periodo e me n’ero innamorato. Così andai al Salone del Mobile deciso a comprarle, ma non appena chiesi allo stand quattro sedie e un tavolo per il salotto di casa si misero quasi a ridere perché le richieste abituali erano nell’ordine di centinaia di pezzi. Cercai allora di perorare il mio caso presentandomi come designer, come appassionato – quale poi effettivamente ero – della seduta... E nel far ciò mi trovai a parlare con lo stesso Pallavisini che, appena saputo chi ero, mi chiese: «Ma lei ha vinto a Trieste?». Ecco, da quello scambio di battute è cominciata la mia collaborazione con le aziende e in pratica il mio lancio come professionista.

 Umberto Rovelli:  Non è un po’ strano che Pallavisini si ricordasse di te dopo un lustro?

 Mauro Pasquinelli:  Certo 5 anni sono molti, ma il concorso era importante. Nel 1962 – quando cioè vinsi il terzo premio al concorso sul Mobile componibile – nella commissione di giuria c’erano sia Gio Ponti che Ernesto Nathan Rogers, si trattava cioè di una competizione che non passava inosservata agli addetti ai lavori. Ma è vero anche che, sempre nel ‘62, fra gli industriali in giuria, c’era Piero Dal Vera, allora molto famoso per la produzione a livello internazionale di mobili e cassettiere per ufficio in faggio. A ridosso del premio visitai la sua azienda veramente notevole per dimensioni – ricordo che in alcuni tratti ci si spostava anche in auto. Quando però mi fermai a parlare con l’architetto interno all’azienda, Flan Sansoni, bastarono pochi secondi per capire che non avrebbero preso minimamente in considerazione i miei lavori. I collaboratori erano scelti in un circuito anche e soprattutto territoriale... Insomma, già in casa di chi all’epoca mi premiava avvertivo un senso di chiusura che lasciava ben poco spazio alle illusioni.
Anche perciò – più tardi, nel 1968 – il mobile premiato nel ‘62 venne messo in produzione da Carnevali e Ricci; un’azienda di Reggello che realizzò il prodotto molto bene, anche se non conosco le quantità perché preferii accordarmi per un compenso in servizi di falegnameria che mi occorrevano sempre per la nuova abitazione.

 Umberto Rovelli:  Torniamo comunque alla tua collaborazione con Pallavisini...

 Mauro Pasquinelli:  Non potevo certo lamentarmi del team nel quale ero coinvolto, Pallavisini sapeva scegliersi ottimi collaboratori, era un imprenditore d’innato talento e si è dimostrato più volte assai competente nel riconoscere qualità in progetti che altri rifiutavano. All’epoca in azienda si potevano incontrare Alberto Salvati e Ambrogio Tresoldi, Alfredo Simonit – che con le 200.000 copie vendute della sedia 101 aveva consentito addirittura la costruzione di una nuova sede per l’azienda – e Pascal Mourgue, tutti validissimi ed esperti designer. Ma sebbene non avessi la loro esperienza credo di aver adeguatamente ricompensato la fiducia accordatami. Lavorando a royalties c’era una sorta di tutela reciproca che fruttò bene per entrambi. In quegli anni guadagnai parecchio a fronte di vendite altissime. All’inizio degli anni ‘70 era già in produzione un vero e proprio bestseller: la sedia Eva che – oltre ad essere tra le sedute più copiate in Italia e all’estero – raggiunse presto vertici di produzione mensile pari a 10.000 pezzi. Una tiratura impossibile per i venti operai in forza alla Pallavisini e che costrinse l’azienda ad esternalizzare la produzione. Poco dopo – nel 1972 – entrò in produzione la sedia Maria che, inseme a Eva, riscosse un successo commerciale anche in Germania – di entrambe la tedesca Lubke KG vendeva 2.500 pezzi al mese.

 Umberto Rovelli:  Anche in ragione di questi riscontri pressoché immediati, com’era il tuo rapporto con Pallavisini?

 Mauro Pasquinelli:  Contrastato. Da un lato, come può riconoscere lo stesso Simonit, Pallavisini era guidato da un grande intuito, un mestiere consumato, una rara capacità di capire il prodotto, cioè di coglierne in anticipo, sin dal progetto, le valenze e le potenzialità. D’altro canto, purtroppo, la sottile intelligenza che gli consentiva una visione tattica di primo livello nel lavoro, non l’aiutava minimamente altrove. Anzi, nella vita quotidiana una sorta di cupio dissolvi lo conduceva a disperdere forse più risorse di quante ne riusciva ad accumulare sul lavoro. Con la frequentazione che si faceva man mano più assidua, il mio «investimento» di energie in questa collaborazione mi preoccupava: avvertivo distintamente i pericoli che ne sarebbero potuti venire per la mia stabilità economica.
Di conseguenza la mia gratitudine nei suoi confronti, ma anche l’ammirazione che provavo per lui come imprenditore, non m’impediva di cercare altre aziende con le quali avviare nuove e durature collaborazioni. Per cui ho iniziato a propormi alle altre aziende del territorio friulano dove praticamente tutti mi conoscevano. Si creava dunque questa sorta di gorgo nel quale io continuavo a girare con i miei progetti – la stessa Eva, per esempio, la proposi prima a diverse aziende tra cui Montina – ma, immancabilmente, dopo una serie più o meno lunga di consultazioni infruttuose e di no recisi, finivo col proporli a Pallavisini che ne realizzava prodotti per 100.000 copie.
Tra l’altro nella stessa Pallavisini ho cominciato a frequentare Adriano Marton con cui molti anni più tardi – a seguito di un incontro fortuito avvenuto al Salone della Sedia di Udine del 2006 –, avrei realizzato la sedia Quadrifoglio.

 Umberto Rovelli:  Non mi è ancora chiara una cosa che credo interessi molti, tu come arrivi a diventare un progettista di sedie?

 Mauro Pasquinelli:  In primo luogo la dimensione della sedia me ne consente il controllo tridimensionale. Nel mio modo di progettare, la verifica – tramite un modello/prototipo realizzato da me in bottega – è sempre stata essenziale. Questa necessità di costruibilità, tenuta e riprova del funzionamento reale, ha indirizzato i miei interessi quasi naturalmente verso prodotti dove il controllo totale fosse gestibile agevolmente. Una sedia potevo sempre riporla in una scatola e portarmela dietro.
Tra l’altro il mio interesse per le strutture pieghevoli e smontabili – riducibili cioè ad un solo piano o quasi – ha un’origine del tutto analoga. Mi piace l’ordine e ho percepito quasi istintivamente che uno dei temi posti al designer è rappresentato dall’ingombro fisico che gli oggetti possono rappresentare quando non sono utilizzati. All’interno di questa linea di ricerca sono da collocare non solo le sedie «riducibili», ma anche progetti che, pur essendo molto innovativi e pratici, non sono stati mai messi in produzione. Mi riferisco al box contenitore pieghevole del 1970 Cubo e al sistema componibile d’arredo col quale ho partecipato – vincendo il premio speciale la Rinascente – al concorso Abet-Print Il laminato plastico nell’arredamento al Mia di Monza del 1969. In entrambi ho investito molte energie e ritengo che su quei temi essi rappresentino il mio contributo «definitivo» in quanto ogni componente è talmente ridotto ai minimi termini che non riuscirei a pensare niente di più essenziale e pratico.
Nella complessità e densità della seduta ho invece colto una tale ricchezza di questioni nonché di potenziali combinazioni solutive che tuttora non riesco a sentirmi appagato del mio lavoro di ricerca su questo tema. Onestamente credo che la sedia sia tra gli oggetti più difficili da progettare e abbia rappresentato più d’una sfida persa dagli architetti che vi ci sono cimentati.
Fin dall’inizio, io, ho puntato sulla comodità. A partire da Eva, nel 1970, ho sempre puntigliosamente verificato le altezze di seduta, la pendenza dello schienale e la gradevolezza dei braccioli, ecc. al fine di ottenere un comfort invidiabile per sedie che spesso venivano realizzate in legno massello, senza cioè alcuna imbottitura. Una sedia alla cui forza evocativa e totemica sovente associamo la scomodità: è infatti praticamente impossibile non farne uno strumento di tortura per il corpo se non si ha l’esperienza adeguata.
Un piccolo vanto che mi posso riconoscere è che, in un arco di oltre 40 anni, nella mia produzione non esistono praticamente mie sedie in legno scomode: sono comode sia Monica che, Chiara, comodissima è Nodo – selezione Compasso d’Oro nel 1979 e segnalazione d’onore al Bio 9 di Lubiana nel 1981 –, come del resto lo sono Ada – per Snaidero – e Platea – per Misura Emme. Piacevolmente confortevoli sono Europa – 1° premio al Concorso Una sedia italiana per l’Europa al V Salone Nazionale della Sedia di Udine nel 1981 – e Giulia – menzione speciale al X Salone Internazionale della Sedia di Udine e 3° premio al TecnHotel di Genova - ADI Milano nel 1986 ed esposta alla mostra The Quest for Continuity: Forms from Italy’s Friuli realizzata al CAFAM - Craft and Folk Art Museum di Los Angeles (USA) nel 1987 –, Cicloide, Balestra e Mondo – tutte prodotte da Calligaris –, così come sono accoglienti le più recenti Iole – Premio CATAS 2000 – e Ines – prodotta da Olivo –, nonché l’ultima nata, Quadrifoglio, realizzata da Arredo Italiana s.r.l. di Villanova dello Judrio - San Giovanni al Natisone e distribuita da Casprini nel 2008.
Ma una delle cose che ricordo con più piacere è stata la scelta di Ada che Angelo Mangiarotti fece – tra numerosi modelli – per la sedia da abbinare alla sua cucina Abaco della Snaidero. Incontrandoci, scherzavamo sempre su quest’aneddoto dicendoci reciprocamente: «Io e te si va d’accordo»...

 Umberto Rovelli:  Trovo interessante il nesso empirico che rilevi fra verifica progettuale e comodità dell’oggetto che, in un certo senso, posticipa la decisione formale definitiva al controllo manuale e corporeo.

 Mauro Pasquinelli:  La conquista della forma «giusta» procede per gradi successivi e aggiustamenti «al vivo» del modello. Per me, aver «trovato» una buona combinazione significa averne «provato» l’altezza e la curva più opportuna della seduta, la pendenza ottimale e la porzione da porre a contrasto col corpo dello schienale, aver valutato i gradi fra seduta e schienale, ecc. A forza di prove cerco di verificare i carichi e le tensioni in modo da garantire la tenuta del montaggio. Man mano che ho proceduto nell’esperienza ho sondato, sperimentato e «memorizzato» alcune norme di riferimento: un raggio di 70-75 cm come ideale per la curvatura del sedile; un raggio di 30 cm per la curvatura dello schienale; la pendenza ottimale della seduta a scendere del 3% – cioè con un profilo decrescente dal fronte verso il retro –; un’altezza di schienale e di seduta contract rispettivamente di 45 e 80 cm...
Norme che, tra l’altro, come sa benissimo chi da tempo fa questo mestiere, sono variabili sia secondo la tipologia di seduta – in quanto, ad esempio, per la sedia da pranzo contract il raggio dello schienale poteva arrivare a 40 cm con pendenza di 10 o 12 gradi anziché i 13 canonici e l’altezza dello schienale è molto più alta –, sia col variare del gusto – la storia anche recente dei divani ne è un esempio –, sia con l’età e il sopraggiungere o meno di minorazioni fisiche – per la mia attuale condizione, essendo tra l’altro alto quasi 1.90 cm, l’altezza di seduta dovrebbe essere almeno di 55 cm per facilitarmi il sollevamento...
Piccole statistiche effettuate in casa con l’aiuto di colleghi, amici e parenti mi aiutavano ulteriormente nella determinazione di quell’equilibrato compromesso fra opposte esigenze che necessariamente rappresenta ogni sedia ben riuscita. Sempre migliorabile e perfettibile, naturalmente, perché è davvero in pari tempo ingenuo e assurdo ritenere che esista una sedia perfetta...

 Umberto Rovelli:  Ma se, come suggerisci, un solo grado determina differenze sostanziali, nella tua prassi progettuale c’era comunque uno standard condiviso abbastanza consolidato...

 Mauro Pasquinelli:  Soprattutto nel mercato contract esistevano, ed esistono tuttora, regole tassative che difficilmente possono essere, consapevolmente o meno, trascurate perché si rischia l’insuccesso commerciale del prodotto. Larghezza (variabile nel caso che la seduta sia sovrapponibile o pieghevole), altezza di seduta e di schienale, pendenze, ecc. sono tutte dimensioni normate quasi inflessibilmente in un determinato contesto storico. Nei tempi lunghi queste norme dimensionali possono anche subire variazioni, ma fin dall’inizio dell’attività, compresi di dover in un certo senso incanalare la mia creatività in un ambito più ristretto di quanto sembrasse a prima vista. Sicché ben presto ebbi chiaro che certi rapporti – differenti fra contract e produzione domestica – erano immodificabili e tali dovevano restare anche se il mio gusto mi avrebbe, magari, suggerito il contrario.

 Umberto Rovelli:  Occorre notare che i concorsi da te vinti non erano dedicati ai «giovani designer»: si tratta, infatti di una categoria che è nata, purtroppo, successivamente a fronte di PIL che, oggi, non fanno certo incrementi oltre il 6% come accadde nel periodo fra il 1959 e il 1963. Per quanto, paradossalmente, le «età» del tuo percorso professionale siano abbastanza simili a quelle odierne, all’epoca rappresentavi forse più l’eccezione che la norma... Non voglio dire che, a circa due decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, tutto fosse più facile, ma il tipo di competizione professionale in quel periodo era molto diretta: nessun filtro commerciale o di immagine. Un chiaro talento difficilmente non veniva riconosciuto o restava in disparte. E le occasioni di farsi valere e guadagnare con questo mestiere erano sicuramente più frequenti... Ora ti vorrei chiedere se questa che ho appena proposto è una descrizione realistica del periodo oppure erano ben percepibili anche allora discrepanze negli atteggiamenti dell’industria e delle riviste nei confronti dei più o meno «giovani» designer? Insomma, la tua «inesperienza» veniva in qualche modo sfruttata non riconoscendoti diritti contrattuali, pagandoti male o non pagandoti affatto, oppure no?

 Mauro Pasquinelli:  Certo, bisognava fidarsi. Non ho mai contestato, né ho mai avuto contenziosi legali, ma sono convinto di essere stato, talvolta, perlomeno sottopagato rispetto a quantitativi di venduto reale che, di fatto, non ho mai potuto controllare realmente. Ma come hai detto fra gli anni ‘60 e ‘70 la produzione era tale che anche subendo qualche torto economico non mi potevo certo lamentare. Se ho avuto un merito è stato quello di non montarmi mai la testa. In alcuni anni sia io che mia moglie – che ha sempre continuato la propria attività autonoma – avremmo potuto spendere più del dovuto o, peggio, affidarci solamente ai proventi ottenuti dalla mia attività di designer... Il terremoto in Friuli del ‘76 fu il tragico evento che tutti sappiamo. Oltre ai morti e ai feriti – come del resto è accaduto nei mesi scorsi in Emilia – i danni inferti al mercato non furono lievi e molte aziende come la Pallavisini – una realtà imprenditoriale, vale la pena di ribadirlo, di tutto rilievo che era coinvolta con produttori come Salvarani, Lubke KG, Thonet... – fallirono ben presto.

 Umberto Rovelli:  Immagino che lavorare per un’azienda divisa fra produzione interna e per altri brand abbia in parte nuociuto sia alla tua «popolarità» nel territorio sia alla chiarezza del rapporto economico con l’azienda.

 Mauro Pasquinelli:  Sia Potocco che Pallavisini avevano questa doppia «anima» produttiva – cosa che d’altronde, in periodi normali, le rendeva forse meno esposte ai rischi imprenditoriali. Del resto occorre dire che solo raramente le aziende furniture nascono immediatamente monomarca. Più sovente si tratta di una conquista, un percorso a tappe nel quale prima l’imprenditore tenta di aprirsi una finestra sul mercato con alcuni prodotti, alcune collezioni, quindi, dopo una fase di consolidamento e nel momento in cui ritiene di aver acquisito visibilità e fatturati opportuni, diminuisce fino a cessare del tutto la lavorazione per conto terzi. All’epoca le aziende monomarca, o comunque esclusiviste dal punto di vista produttivo, nell’area friulana erano assai poche.

 Umberto Rovelli:  Se si escludono alcune tue «episodiche» collaborazioni con la brianzola Tisettanta e, assai più di recente, con la toscana Casprini – di cui magari parleremo più avanti –, sia negli ultimi due decenni del secolo scorso sia in questo secolo hai comunque continuato ad operare nell’area friulana con numerose ed importanti realtà come Calligaris, Sedie Friuli, Deta, Deta Sud, Emme I, Rover Plus e Olivo. Con quest’ultima in particolare negli anni ‘80 hai realizzato una sedia contract in legno lamellare la cui storia è ad un tempo singolare e sintomatica del tuo modo abbastanza «libero» di progettare e confrontarti col mondo della produzione.

 Mauro Pasquinelli:  Sul finire degli anni ‘70 realizzai una sedia in plastica e acciaio che proposi in primo luogo a Kartell, Artemide e ICF. Ad un primo rifiuto dell’azienda sottoposi il prototipo a Segis che ne fece un modello e portò la seduta a Milano per il Salone del Mobile del 1982. Nonostante ciò, non ero soddisfatto. Mi pareva che l’azienda non valorizzasse abbastanza la mia proposta per cui mi ripresi i prototipi e li portai alla Nuova Pallavisini...

 Umberto Rovelli:  Vuoi dire fisicamente durante il Salone del Mobile?

 Mauro Pasquinelli:  Non ne vado fierissimo, ma fu proprio così! Ero molto deluso dal poco feeling e dal poco favore che maturava il progetto. Dei prototipi Segis aveva realizzato la parte metallica cromata mentre io avevo sudato le proverbiali sette camicie per realizzare al meglio, scartavetrando buona parte dell’estate, i sedili e gli schienali in resina che mi ero procurato presso un produttore di barche nella darsena di Viareggio. Sicché, quando vidi com’erano state posizionate in balconata ho avuto una reazione molto discutibile, ma sincera. Mi sentivo defraudato, sembrava quasi che mi avessero fatto un favore ad inserirmi nelle loro proposte di quell’anno, per cui sono salito sullo stand ho preso i due prototipi esposti e li ho portati a quello della Nuova Pallavisini.
Come al solito la sedia ebbe un discreto successo di richieste e prenotazioni ma, purtroppo, l’azienda fallì di nuovo – e questa volta definitivamente.
Eppure credevo nel progetto e quando ebbi modo di contattare Adriano Olivo – grande maestro italiano nelle produzioni in legno lamellare – gli proposi di realizzare un modello formalmente analogo ma in legno lamellare...

 Umberto Rovelli:  Parafrasando Alfred Hitchcock, potremmo definire Giulia – e non solo quella – «la sedia che visse due volte». Immagino pure che ti ci volle ben poco per convincere Adriano Olivo a realizzarla perché Giulia è obiettivamente una sedia incredibilmente comoda nonché di grande eleganza e fascino. Non a caso ha ottenuto riconoscimenti nel 1986 sia al Salone Internazionale della Sedia di Udine che al premio TecnHotel di Genova - ADI Milano, ed è stata esposta, come detto, nel 1987 alla mostra The Quest for Continuity: Forms from Italy’s Friuli realizzata al CAFAM - Craft and Folk Art Museum di Los Angeles nonché alle tre mostre patrocinate dall’ICSID – International Council of Societies of Industrial Design svoltesi a Udine nel 1998 e Köln (D) e Chicago (USA) nel 1999...

 Mauro Pasquinelli:  Ti ringrazio, è davvero così. Giulia piacque moltissimo in entrambe le versioni... Tra l’altro la sedia venne sviluppata per Olivo quando quest’ultima non navigava affatto in buone acque. E penso di poter dire che le vendite di Giulia – prodotta in numerosi esemplari – abbiano contribuito non poco a far uscire l’azienda da un momento difficile. In particolare per la popolarità che ebbe a riscuotere il marchio. La seduta fu molto pubblicata e apprezzata in Europa, tant’è che sia Thonet, sia Thonet Vienna, sia Novikoff – brand di Herman Miller – la inserirono nel proprio catalogo. Un successo, quello di Giulia, che mi portò a soprassedere su alcune scelte forse discutibili. È il caso ad esempio della versione rivestita che, per non snaturare il progetto, avrei preferito si limitasse alla sola seduta, mentre, a quanto pare, una delle inderogabili «leggi» del mercato contract è proprio quella di rivestire integralmente sia la seduta che lo schienale. Io continuo a pensare che l’effetto complessivo sia un po’ caricaturale rispetto all’originale.
Una cosa che comunque va detta, è che Giulia era emblematica anche di un modo di produrre che, per la peculiare incidenza del fattore umano in alcune fasi della lavorazione, oggi è praticamente scomparso. Per farti un esempio, la realizzazione dello schienale comportava alcune operazioni che non potevano che essere svolte manualmente – lo schienale, infatti, doveva essere fissato con colla a presa rapida fissando le alette laterali con morsetti stretti a mano – e tutto ciò dava alla seduta un valore e un «sapore» anche artigianale che oggi è molto difficile consentirsi.
Riguardo alla versione «originale» della seduta occorre notare invece che anche allora certi mercati viaggiavano seguendo traiettorie «parallele». Basti notare che, in buona sostanza, Giulia – rielaborazione di un prototipo più «povero» realizzato in metallo e plastica – l’ho inutilmente proposta ad Artemide, Kartell, ICF..., tutte aziende che, con l’ottimo intuito che contraddistingue alcuni brand, avevano rifiutato o non sufficientemente creduto in un prototipo che, nei fatti, si è dimostrato vincente. E ciò in quanto, per farsi un'opinione sul mio lavoro, forse hanno valutato più i miei titoli accademici che quelli professionali.
Anche di questo mi sono sempre preoccupato ben poco, ma non di rado la mia competenza è stata sottovalutata per la mancanza di un bel pezzo di carta. E spesso chi ha pagato per questa «supponenza» sono stati i prodotti.

 Umberto Rovelli:  Credo che ci ritorneremo sopra più avanti. Ora vorrei invece sapere come la tua doppia vita potesse funzionare allora. Preso atto anche delle difficoltà da te riscontrate nel mantenere un rapporto costante nel tempo con Pallavisini, come riusciva un impiegato «a tempo indeterminato» presso un’azienda fiorentina a mantenere i contatti, a proporsi in Friuli, nel Veneto e in Lombardia con aziende furniture importanti, ottenendo risultati prestigiosi, brevettando modelli certificati dal CATAS – ovvero il maggior istituto italiano di ricerca-sviluppo e laboratorio di prove per il settore legno-arredo...

 Mauro Pasquinelli:  In primo luogo lavorando parecchio a casa, ma in modo consistente sfruttando oculatamente i fine settimana e i giorni di ferie – una volta addirittura la luna di miele – che trasformavo regolarmente in occasioni di studio, di ricerca, di incontro lavorativo. Per parecchi anni ho rubato tempo alle distrazioni extra-lavorative per mettere in pratica quello che era il mio sogno. Ma sapevo anche organizzarmi: viaggiando di notte potevo, ad esempio, andare al cinema Gambrinus – poco distante dalla stazione centrale di Firenze – e dopo il film partire in treno per Udine. Per andare a Colonia prendevo un paio di giorni di ferie in ufficio, lo stesso facevo in occasione del Salone della Sedia e quando occorreva incontrare nuovi imprenditori. Forse anche per questa mia obiettiva difficoltà ad essere sempre presente nei vari momenti di realizzazione dei prodotti, la mia tendenza a definire il progetto nei minimi dettagli si è confermata ed acuita nel tempo. Dalla fine degli anni ‘60 nel piano più alto della casa ho creato uno studio nel quale disegnavo – soprattutto di notte – mentre i fine settimana li passavo nella bottega di mio padre realizzando e sperimentando prototipi, giunti, modelli 1:1, ecc...

 Umberto Rovelli:  Si percepisce ora, forse, più chiaramente la natura del tuo rapporto con il design. Per quella che è stata la mia esperienza in questi pochi anni di scandaglio del fenomeno professionale, mi sembra che i designer possano essere distinti in due grandi categorie: a) coloro che fin dal primo approccio dimostrano di avere in mente un determinato prodotto innovativo o perlomeno poco usuale e sostanzialmente cercano un’azienda disposta a realizzarlo; b) coloro che prima di pensare ad un possibile oggetto da realizzare devono comprendere che tipo di azienda hanno di fronte. Definibili come progettisti «assoluti» e «relativi» queste due categorie di professionisti instaurano rapporti – e aspettative di relazione – sostanzialmente differenti. Mentre i primi puntano essenzialmente a individuare un partner che gli consenta di portare alla luce qualcosa che per loro è già molto più di un semplice concept, i secondi tendono a condiscendere ai desiderata imprenditoriali e ad essere più sensibili alle dinamiche del gusto; laddove i primi tendono perennemente a sentirsi «copiati», i secondi appaiono più spesso benevoli nei confronti della pratica imitativa perché vi intuiscono contiguità con il loro stesso modus operandi. Seguendo un poco la tua attività mi sembra di poter dire che tu abbia spesso sentito il dovere di «innovare» col progetto, scegliendo strade magari non ancora battute.

 Mauro Pasquinelli:  Come ho detto in più occasioni – anche con te – la mia esperienza professionale ha una ragione essenzialmente intima. Voglio dire che ho vissuto questa opportunità di lavoro come la realizzazione nella pratica quotidiana di un sogno. Ma ho altresì sempre pensato che il «sogno» doveva restare tale, mantenere cioè una sua purezza, un senso di incontaminato, e non sono mai stato disposto ad accettare compromessi di sorta. E questo per il semplice motivo che oltre un certo limite essere un designer non avrebbe avuto significato per me. Ho quindi realizzato prodotti di design per me e quasi mai «sotto dettatura». Non ho mai riconosciuto alcuna necessità esterna nel progettare, bensì ho sempre inteso questa pratica come un’urgenza interiore, ritenendo che la «libertà» della mia ricerca fosse in grado di garantire e salvaguardare anche la mia onestà di giudizio: se ritenevo che per me un prodotto fosse «giusto» allora potevo proporlo per gli altri. Non ho mai progettato oggetti che non avrei voluto avere accanto, e il trasporto – potremmo dire l’amore – che ho per le cose che progetto credo si senta ancora oggi. Ho avuto numerose testimonianze personali di architetti che riconoscevano nel mio lavoro la genuinità di intenti, l’approfondimento tecnico sui materiali. E, sebbene non abbia mai versato un euro per le pubblicazioni dei miei lavori sulle riviste, il mio lavoro è sempre stato molto apprezzato dagli «addetti ai lavori» che – in un mercato e un sistema fin troppo dominato dalla comunicazione fine a se stessa – sono, putroppo, ormai i soli a poter percepire il valore del dettaglio ben concepito e risolto.

 Umberto Rovelli:  Abbiamo ora capito come il tuo rapporto con le aziende sia stato assai poco improntato alla biunivocità. Ti sei sempre considerato designer per scelta e quindi molto più disposto ad offrire progetti che a ricevere direttive su cosa e come progettare. Ma con i tuoi colleghi hai mai condiviso passioni, ideali, speranze?

 Mauro Pasquinelli:  Alla mia età mi sento di poter dire di aver sempre fatto solo ciò di cui mi sentivo convinto. Per farti un esempio concreto, quando Rino Snaidero mi propose di progettare una poltrona snodabile per ufficio non esitai a declinare l’offerta. E questo essenzialmente per tre ragioni: non mi piacciono, non mi sarei divertito a progettarla, ma soprattutto, non avevo la minima esperienza in quel campo. Conoscendo il mio temperamento avrei impiegato un tempo infinitamente lungo prima di sentirmi in grado di realizzare un progetto consapevole. Dunque ho rinunciato.
Per quel che concerne la «condivisione» di tematiche e i rapporti con i colleghi, nella mia attività ho sempre preferito lavorare da solo, per cui, anche in quanto eternamente fuori sede, le mie conoscenze erano per forza di cose sporadiche. Ho avuto, anzi, molte amicizie nate in occasione di competizioni: indifferentemente sia con concorrenti che con giudici. Tra quest’ultimi, ricordo con affetto Giotto Stoppino che nel 1969 era in commissione al Concorso Abet-Print Il laminato plastico nell’arredamento e in quella occasione si complimentò con me per il progetto di un sistema componibile d’arredo che ottenne il premio speciale la Rinascente. C’era in quel progetto l’idea e la ricerca di una semplicità costruttiva e formale che doveva aver sentito familiare, assonante con quella di tutta la sua produzione. Ci siamo sentiti spesso – certe volte sospetto anche che la sua mancata laurea abbia contribuito a saldare maggiormente la nostra relazione – in tutti questi anni fino a qualche settimana prima della sua scomparsa, susseguente di soli pochi giorni a quella della moglie Deda. Entrambi erano dotati di una rara sensibilità e una dignitosissima, dolce fragilità.
Da Stoppino, che era un poeta in tutti i sensi, ho ricevuto anche lettere molto gentili e confidenziali. La mia esperienza di «seggiolaio» – me lo diceva senza alcuna enfasi negativa – mi consentì anche di proporlo per il progetto di una sedia quando ebbi un incarico di consulenza con Fornasarig. Da allora credo che abbia avuto occasione di cimentarsi sul tema una decina di volte nell’area friulana riuscendo anche ad avere ottime vendite come con la sua Margherita realizzata da Calligaris.
Ma il ricordo di Giotto e Deda mi fa immediatamente pensare ad un’altra figura importante ed esemplare per la mia attività e che ha lasciato un gran vuoto qui in Toscana: Paolo Parigi.
Lo conobbi la prima volta nel 1979 presso la sede dell’ADI di Milano in occasione della premiazione dell’XI edizione del Compasso d’Oro. Ne apprezzai immediatamente la semplicità e simpatia. Aveva già progettato diversi lavori, tra i quali alcuni tecnigrafi – visti ed ammirati in un negozio di Firenze non immaginando ancora chi mai li avesse disegnati – che proponevano un’immagine completamente nuova per i tavoli da disegno.
Durante i Salone del Mobile visitavo sempre il suo stand per conoscere i lavori che aveva presentato: e si parlava sempre della realizzazione tecnica dei particolari che erano stati il motivo intimo del lavoro di quell’anno.
In particolare mi ricordo quando propose Terni, un tavolo di ferro con un piano molto grande e una superficie rugginosa che dava la sensazione di essere al cospetto di un’immagine originale, come una pittura informale. Un effetto che Paolo otteneva trattando (non so con cosa) il metallo; mi disse che era il suo segreto. «La sensibilità – gli dissi allora elogiandolo – è una dote, non si può comprare in farmacia».
Credo che pochissimi progettisti conoscano il metallo – specie l’alluminio – come lo conosceva Paolo. Ed è questa esperienza che gli ha consentito di progettare quei pezzi – dotati di rara essenzialità e funzionalità – che gli sono valsi non solo riconoscimenti e premi internazionali, ma anche un grande apprezzamento da parte della critica mondiale. Nonostante i successi, era una persona molto umile ed il lavoro lo divertiva. Con me è sempre stato disponibile per informazioni e consigli tecnici. Era sempre contento di rendersi utile agli altri.
Tra le persone che mi mancano molto non posso fare a meno di ricordare un collega e amico che, come me, era davvero innamorato del proprio lavoro: Francesco Geraci. Ci sentivamo spesso parlando di design, particolarmente di sedute. La prima volta che lo conobbi fu nel 1972 alla stazione di Colonia mentre entrambi attendevamo il treno per Firenze e da allora siamo rimasti sempre in contatto. Dopo la mia parziale perdita d’autonomia motoria, per me era diventato una sorta di confidente e reporter – era espertissimo, competente e informato anche sulla storia del settore furniture per la casa e per il contract – in grado di aggiornarmi costantemente su tutte le fiere e le mostre alle quali partecipava sia in veste di espositore che di «osservatore» – considerava infatti la curiosità e l’attenzione al lavoro altrui un requisito essenziale per svolgere la nostra professione. La sua cultura sul design era vastissima e profonda e, ben conoscendo quanto fosse complessa la relazione mercato|impresa, per anni ha disegnato sedute divenute assai di frequente bestseller aziendali anche in quest’ultimo difficile decennio. Era una persona molto riservata col quale però ho condiviso molto negli ultimi anni. Quando se ne è andato – il primo ottobre 2010, all’età di 66 anni – in me ha lasciato un grande vuoto di relazione e confronto.
Oggi – oltre ad Alfredo Simonit – stimati colleghi ed amici friulani con i quali ho mantenuto un rapporto e continuo ad essere in contatto sono Werther Toffoloni, mio coetaneo, titolare dello Studio Tipi di Corno di Rosazzo in provincia di Udine, e i giovani designer Robby Cantarutti e la moglie Francesca.

 Umberto Rovelli:  Mi sembra di ricordare che anche con Alfredo Simonit tu abbia instaurato un rapporto che si è poi concretizzato in occasioni di lavoro...

 Mauro Pasquinelli:  Certo, occorre però fare un passo indietro, proprio agli inizi della mia attività nel 1969. Come ho detto, sul finire degli anni ‘60 disegnai e realizzai molti arredi per la mia casa-studio. Per la sala avevo progettato un tavolo con una particolare soluzione «a slitta» che creava un’inconsueta ansa semicircolare a capotavola. Qualche mese dopo Simonit mi presentò alla Mobel Italia di Udine dove incontrai l’allora proprietario Dario Del Mestre – cui si è in seguito avvicendato Zevi. Fu allora che proposi l’idea di realizzare Circline, una base per un tavolino che riproduceva industrialmente lo stesso principio formale adottato per il mio tavolo domestico tramite la curvatura di un trafilato di acciaio a sezione rettangolare. L’idea ebbe un grande successo di vendite che nasceva dall’estrema versatilità e complessità di combinazioni che un unico modulo matrice era in grado di generare. Si creò infatti un abaco molto flessibile di forme e soluzioni che pur nascendo dallo stesso elemento metallico semicircolare erano in grado di supportare elegantemente diversi piani di cristallo di varie forme e misure.

 Umberto Rovelli:  C’è una costante o se preferisci un fil rouge che parte dal tuo sistema componibile d’arredo premio speciale la Rinascente al Concorso Abet-Print Il laminato plastico nell’arredamento al Mia di Monza del ‘69 e arriva alla collezione Quadrifoglio prodotta in Friuli e distribuita da Casprini nel 2008. Praticamente mezzo secolo ti ha visto particolarmente attento ad una questione – quella del giunto – di volta in volta esplorato nei suoi corollari tipologici: il mobile e il tavolo componibile, la seduta pieghevole e quella smontabile, gli incastri ad alta precisione... Che mi dici di questa sorta di ossessione? A quale prova, tra le molte realizzate, sei più affezionato? Ce n’è qualcuna che invece non ti ha particolarmente soddisfatto?

 Mauro Pasquinelli:  È una sintesi giusta, ho brevettato molti sistemi connettivi fissi e mobili e quello stesso sistema componibile d’arredo del ‘69 non era altro che un ingegnoso e gradevole gioco di incastri e di asole che tuttora dà prova di sé (dopo quasi cinquant’anni) nel corridoio di casa mia. Purtroppo il laminato non consentiva quell’uniformità di spessore che il mio progetto richiedeva perché nel processo di riscaldamento e raffreddamento nella plastica si possono verificare divergenze di decimi di millimetro che non offrono la garanzia di far combaciare gli incastri come dovrebbero. Nonostante l’ottima gradevolezza dei primi ensemble realizzati, la semplice variabilità aggregativa e il buon impatto che il prodotto ebbe sui responsabili aziendali, il progetto, nostro malgrado, si arenò definitivamente.
Se però dovessi segnalare uno spiacevole insuccesso professionale parlerei senz’altro del box contenitore pieghevole del 1970 Cubo. Un prodotto che, come ho detto poc’anzi, rappresenta il mio contributo «definitivo» al settore del componibile – praticamente realizzato come in un sistema di costruzione per moduli standard dotati di cerniere di sostegno e di chiusura. In quanto ogni parte risultava ridotta ai minimi termini, le potenzialità del progetto erano enormi ma, forse per ingenuità, proposi il brevetto, e conseguentemente cedetti il diritto di produrre o meno l’articolo, ad una azienda – la Steelwood – che molto probabilmente aveva già in produzione un sistema concorrente e si guardò bene dal metterlo mai in produzione.
Più o meno parallelamente nello stesso periodo del box, ma anche successivamente, ho studiato soluzioni per sedute (e tavoli) smontabili, componibili e pieghevoli. Ammetto candidamente che lo spirito con cui ho affrontato questi anni di attività è stato un po’ quello del dilettante. Era intrigante scovare modi nuovi per risolvere temi che mi sembravano inevasi dal mercato.
Certamente ho ben presto appreso che il mio ruolo poteva avere un senso solo se rendeva un ritorno economico a me e all’azienda, ma quello che ho progettato l’ho fatto con amore, perché mi piaceva tanto questo mestiere un po’ pazzo che non lascia quasi mai margini di certezza. Per anni ho cercato di essere onesto con me stesso e penso di aver sempre riconosciuto i miei errori. Ad ogni nuova esperienza ero pronto a fare prove su prove, e mi sono abituato a convivere col dubbio di una scelta troppo estrema, con la possibilità di un inatteso cedimento strutturale o del materiale, col rischio di insuccesso cui anche un ottimo prodotto può andare incontro...

 Umberto Rovelli:  Stai pensando alla seduta Quadrifoglio, distribuita nel 2008 da Casprini?

 Mauro Pasquinelli:  Anche, ma non solo. Il caso di Quadrifoglio è solo più esplicito e doloroso per me in quanto s’inserisce in un momento particolare del mercato delle sedie in legno. La stessa scelta dell’azienda forse non è stata così felice come credetti all’inizio. Rispetto alla produzione attuale di Casprini la seduta Quadrifoglio costituiva più un unicum «stravagante» che il segno di una decisa tendenza ad ampliare il target di riferimento. Immagino che l’aver inserito nello stand un prodotto così «serio» che solo apparentemente ricalca stilemi tradizionali, abbia contribuito più a confondere le idee dei buyer abituali dell’azienda che ad attrarne nuovi creando sinergie fra mercati distinti e paralleli. Forse anche la scelta delle essenze – che onestamente appesantiscono un poco le linee pulite, leggere e sinuose della seduta – non ha portato fortuna al prodotto.
Un po’ immodestamente, con Quadrifoglio credo di aver offerto la mia prova più tecnologicamente e formalmente avanzata.
L’innesto a doppia curvatura del sedile e dello schienale, gli scavi laterali e nell’intradosso del corpo lamellare della seduta, la peculiare sezione a quarto di circonferenza digradante delle gambe, sono il risultato di una sincera ricerca e anche se nel loro insieme sembrano riproporre, in versione attualizzata, stilemi formali propri delle sedute anni ‘50, la seduta non mima affatto né tantomeno «scimmiotta» il passato. Certo, è un prodotto che si confronta con la memoria, ma reinventando e sublimando il ricordo in un artefatto di altissima funzionalità: tutti gli incastri vengono realizzati in centri di lavoro di alta precisione e il modello può vantare 200.000 cicli senza difetto certificati dal CATAS (Centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove settore legno-arredo).

 Umberto Rovelli:  Come è nato il progetto?

 Mauro Pasquinelli:  Prima di realizzare Quadrifoglio, venni coinvolto – su presentazione dell’ingegner Angelo Speranza, amministratore delegato del CATAS –, col programma formativo dell’IPSIA - Istituto Professionale Mattioli a San Giovanni al Natisone. L’ingegner Ambrosio, mi propose di realizzare un progetto di seduta da proporre per la modellazione ai suoi allievi. In tale occasione ideai una struttura ad incastri abbastanza simile a quella poi realizzata con Quadrifoglio: a mio avviso la sperimentazione di un modello connettivo non tradizionale si addiceva molto all’ambito formativo. A fine corso, si presentò quindi per me la possibilità di verificare immediatamente il progetto facendo svolgere al CATAS le prove di carico e sollecitazione sui due modelli (la versione era sovrapponibile) realizzati dai ragazzi. Con mia soddisfazione la seduta superò i 100.000 cicli e questa conferma di valore concreto del progetto mi spinse a svilupparne in dettaglio le tre versioni: con braccioli, senza ed impilabile.

 Umberto Rovelli:  Tutte e tre, ovviamente, comodissime...

 Mauro Pasquinelli:  Che senso avrebbe altrimenti? La mia «filosofia» professionale è molto pratica ed elementare; quello che mi chiedo in primo luogo è: «A cosa serve questa sedia?» Mi interessa sapere se verrà utilizzata in uno studio, attorno ad un tavolo pranzo, in una sala d’aspetto, ecc... A questo dato, l’esperienza e il «mestiere» concatenano quasi naturalmente una serie di ulteriori considerazioni – dimensionali, tecniche, materiali – che mi hanno sempre aiutato a sintetizzare in forme il progetto.
La scelta di linearità formale costituisce un ulteriore tassello riconoscitivo del mio lavoro. Semplificare non è affatto semplice in quanto i problemi in una prima fase ti si presentano come vincoli per gli standard della produzione seriale. Occorre saper aggirare questi vincoli partendo da una conoscenza approfondita sia dello status quo tecnologico del proprio settore, sia di quelli affini o addirittura lontanissimi. E saper aggirare questi vincoli equivale a ridurre i costi che sono sempre il fattore più importante perché un prodotto abbia o meno successo.
Sembra assurdo ma talvolta, se non addirittura spesso, diventa più costoso «pulire» e rendere essenziale il progetto che lasciar trapelare la complessa problematicità del tema. Quando con Salvarani proposi la sedia Europa – 1° premio al Concorso Una sedia italiana per l’Europa al V Salone Nazionale della Sedia di Udine nel 1981 – questa era il risultato di un progetto veramente essenziale che si risolveva in un gioco minimo di 5-6 incastri che connettevano ai fianchi, il sedile e lo schienale. Questa scelta imponeva una precisione di esecuzione degli elementi, e di conseguenza dei costi, che a prima vista non traspare. Ma questa è quasi una legge tecnologica: l’apparente assenza di sforzo produttivo è sempre frutto di un dispendio di capitali ed energie intellettuali assai cospicuo.
Anche per questo sono molto dispiaciuto della scarsa fortuna fino ad oggi riscontrata da Quadrifoglio. Dietro questo progetto c’è il lavoro ineccepibile dell’Arredo Italiana srl, azienda manzanese di assoluto prestigio internazionale, che con due centri di lavoro a 6 assi non solo produce prototipi per alcune importanti aziende del settore arredamento italiane ed internazionali ma è anche CATAS member ed è in grado di offrire una notevole serie di servizi sia ai designer che alle aziende: digitalizzazione dei disegni, prototipi manuali, industrializzazione e collaudi del prodotto, prototipi industriali, stime di costo e produzioni limitate – come, del resto, è meglio specificato nel nuovo brand Prosign  (2) . Un team coeso e vivace – Adriano Marton e i figli Rodolfo e Federico – che ha creduto nel mio lavoro, ha realizzato in modo inappuntabile il modello del mio progetto ottenendo una certificazione che equivale quasi ad una garanzia a vita e un’infinità di accorgimenti ed astuzie di dettaglio che possono conoscere e apprezzare solo gli «addetti ai lavori», ma potrebbero rappresentare anche occasioni di crescita per lo stesso settore delle lavorazioni in legno.

 Umberto Rovelli:  Ad esempio?

 Mauro Pasquinelli:  È presto detto. Il piano della seduta di Quadrifoglio è costituito da un fortissimo pannello in multistrato curvato di 30 mm. Per esperienza so bene che nel legno multistrato i fissaggi a colla possono non risultare saldi quanto quelli del legno massello: nel caso specifico temevo che in corrispondenza del tenone (il perno della gamba) la colla non avrebbe aderito in modo uniforme sui diversi strati sovrapposti del legno rendendo meno sicuro l’incastro.
Per evitare questo ho brevettato un perno che agisse in modo analogo ai tasselli fisher che, espandendosi all’interno del muro, inibiscono assai bene lo sfilamento del gancio. L’incastro del tenone di Quadrifoglio ha dunque un dente che, dopo l’incasso, s’allarga in cima nel multistrato evitando così anche il rischio marginale di fuoriuscita della gamba dal corpo del sedile prevedibile col semplice incollaggio.
Questo dettaglio a mio avviso dà il senso del rapporto quasi simbiotico che si crea fra un mestierante del legno come me e la materia con cui ha lavorato per decenni. Si determinano suggestioni e intuizioni che vanno al di là della forma e della tecnologia.
Tra le accortezze del progetto è da segnalare l’escamotage adottato per alleggerire la seduta nel suo complesso. Lo scavo delle parti non sollecitate è divenuto occasione formale ed ha ispirato il nome della seduta stessa. Infine, particolare di discreta difficoltà realizzativa è anche la scodatura dello schenale che passa – dalla base alla sommità – da uno spessore di 1,5 a 0,8 cm.
Man mano che si nutre la propria conoscenza di frequentazione e di sperimentazione, di prove e ricerche, ogni nuovo progetto si determina e si dispiega in senso quasi naturale. Oggi poi ci sono macchine meravigliose a controllo numerico che offrono a questi saperi artigiani, frutto di convivenza e dialogo col materiale, un potere quasi magico, un’esattezza e una «maestria» di tocco che va ben oltre la precisione millimetrica. Ed è un vero peccato che tutta questa teorica potenzialità per il progetto del legno sia disponibile proprio ora, in un momento in cui, anche a causa degli enormi costi del legno, il mercato si sta indirizzando su materiali alternativi.

 Umberto Rovelli:  Non so se sei d’accordo, ma vorrei sbilanciarmi in un giudizio dicendo che forse Giulia è la tua seduta più bella, o comunque, quella che ha soluzioni formali più convincenti. Ma la Nodo resta la mia preferita anche per l’assoluta esemplarità di quel fil rouge del giunto cui accennavamo precedentemente e che in questo progetto diviene protagonista indiscusso.

 Mauro Pasquinelli:  Indubbiamente il giunto è il fulcro del progetto di Nodo – che infatti non a caso si chiama così. All’epoca del progetto mi recai nell’officina di un amico, presi quattro tubi trafilati – che hanno un diametro Ø costante sia internamente che esternamente – e li feci sezionare e saldare per ottenere la configurazione finale dello snodo tubolare quadripartito. Non fu facile e occorse molto tempo per realizzarlo ma questa soluzione era sicura e lo sapevo. Lo snodo della seduta – che è bello anche perché audace e fortemente sollecitato – avrebbe retto bene alle prove di carico ottenendo sicuramente un buon livello di certificazione. A questa prima soluzione realizzativa seguì quella finale – decisa cioè nella mia fase di definizione del prototipo – che prevedeva la saldatura di solo due tubi (quelli relativi al sedile e alla gamba posteriore) mentre le due porzioni dello snodo della gamba anteriore e dello schienale erano in realtà ottenuti dalla curvatura a macchina di un medesimo tubo.
Tisettanta, pur convinta dal prodotto ebbe molte perplessità sulla scelta tecnico-realizzativa dello snodo che avrebbe dovuto – come poi avvenne nella versione definitiva della sedia – essere ottenuto per fusione. Fin qui tutto bene, anzi il progetto avrebbe acquisito un fascino tecnologico persino superiore, senonché Tisettanta – presumo per ridurre i costi complessivi dell’avvio in produzione – prese la censurabile decisione di realizzare lo snodo con una fusione a due pezzi: il tutto, tra l’altro, senza minimamente interpellarmi.
Ora non merita dilungarsi più di tanto sulle capacità di resistenza di uno snodo realizzato in quel modo, ma è ovvio che se una fusione unica può garantire un certo livello di stabilità e resistenza alle sollecitazioni, una fusione in due pezzi risulta assai meno performante.
Nel giunto supervisionato da Tisettanta le due porzioni si incastravano in una morsa lievemente elissoidale che lasciava a vista una scanalatura abbastanza profonda regolabile tramite una vite a brugola. L’idea di fondo era di compensare agevolmente le variazioni di spessore che il legno avrebbe subito con il variare del tempo e dell’umidità – che all’uscita sul mercato è circa del 12-13% – agendo direttamente sulla morsa di tenuta delle due parti del giunto. In concreto però la scelta effettuata non si dimostrò lungimirante. E il danno economico imputabile a tale opzione fu quasi immediato, sostanziale e tangibile perché l’interesse internazionale per la Nodo si concretizzò ben presto. Quando venni contattato dal pr della Thonet americana, Risom – fratello di Jens Risom, già progettista di Knoll –, la decisione finale da parte dell’azienda fu naturalmente condizionata alla valutazione delle capacità di resistenza della sedia presso un istituto statunitense. Il giunto cedette ad una soglia molto bassa di cicli e, di conseguenza, la cosa si fermo lì.
A rigore pertanto, quella della sedia Nodo fu più una vita virtuale che reale ed è buffo pensare che, pur essendo una delle mie sedie meno prodotte in assoluto, quasi tutti se ne rammentino, sia perché nella sua breve esistenza fu molto pubblicata, sia perché venne selezionata al Compasso d’Oro nel 1979 (e occorre ricordare che in giuria c’erano Angelo Cortesi, Gillo Dorfles, Augusto Morello, Arthur Pulos e Yuri Soloviev).
Questa esperienza mi riconfermò gli antichi pregiudizi che avevo sempre nutrito, da buon figlio d’artigiano, nei confronti di quelle aziende che come belle scatole vuote promettono assai più di quanto possano realmente mantenere. Anche un «provinciale» come me riusciva a comprendere che, per essere vincente sul mercato, un giunto non solo doveva essere granitico ma che fra due materiali differenti la tenuta nel tempo non può essere mantenuta agevolmente. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, nelle sedie che ho realizzato personalmente, nello snodo non si percepisce alcuna vibrazione e le gambe non ciondolano minimamente perché – ben sapendo che col tempo le diverse dilatazioni e contrazioni di legno e metallo avrebbero determinato la comparsa di un gioco nell’incastro – avevo preventivamente inserito negli snodi alcuni spinotti metallici, creando quindi all’interno dello snodo stesso una relazione di metallo contro metallo che rimane pressoché costante nel tempo.

 Umberto Rovelli:  Non hai avuto modo di porre rimedio, magari proponendo il progetto ad altre ditte?

 Mauro Pasquinelli:  Lucia – questo era il nome della prima versione di Nodo – venne all’inizio prodotta da Pallavisini e presentata nel proprio stand a Colonia – ricordo l’installazione che per evidenziare sia la versatilità sia l’assoluta pulizia del prodotto, le metteva a contrasto con un tavolo del '600. La seduta era già stata collaudata al CATAS nel luglio del 1976 senza che nessun difetto fosse riscontrato dopo 53.000 colpi. Superata la «prova a fatica della struttura», la Lucia esposta a Colonia venne pubblicata sulla prestigiosa rivista tedesca md dello stesso anno.
Successivamente, subentrato l’interesse di Tisettanta, Pallavisini svolse un ruolo di terzista per l’edizione di Nodo. E ci fu una spiacevole presa di posizione di Tisettanta che, nella fase di interesse della Thonet americana, cercò d’imputare l’insuccesso della certificazione negli U.S.A. ad errori di produzione di Pallavisini. Posizione molto discutibile anche perché, nel tempo, ho verificato concretamente quanto Pallavisini fosse stato sempre un ottimo partner, sia per la qualità sia per i costi del lavoro offerto. Un’ulteriore riprova l’ho avuta nel corso di un mio successivo tentativo di produzione della Nodo con giunto in alluminio distribuita dall’azienda Mathias nel '93-'94 che ebbe esiti commerciali davvero deludenti.

 Umberto Rovelli:  Una certa «freddezza» di rapporti fra te e Tisettanta l’avevo già intuita leggendo di recente una – per molti versi encomiabile – pubblicazione dedicata ai 40 anni dell’azienda. Escludendo la sezione dedicata alle biografie dei designer, nel volume di oltre 150 pagine, tutto quel che sono riuscito a trovare sul tuo lavoro è la seguente frase: «Bartoli rafforzò la collaborazione con l’amica Sarian, che sviluppò per Tisettanta nuovi prodotti come il letto Dixie e introdusse in collezione la sedia Nodo (1975) ideata da Mauro Pasquinelli – la quale verrà selezionata per l’edizione del 1979 del Compasso d’Oro e nel 1981 al BIO di Lubiana»  (3) . Forse un po’ poco per il prodotto che credo abbia fatto ottenere all’azienda, nelle quattro decadi di attività, il suo più prestigioso riconoscimento...

 Mauro Pasquinelli:  Non entro nel merito di scelte editoriali che non mi competono. Come ho detto esistono molti motivi perché anche Tisettanta non si senta particolarmente fiera di quella specifica produzione. Ho apprezzato molto che si siano ricordati della mia attività, ma, resta il fatto che, con Nodo sono stati fatti errori di leggerezza veramente grossolani che ne hanno sicuramente ridotto la commercializzazione in ambito internazionale.
Del resto occorre ricordare che l’ambiente del design vive anche di contraddizioni, spesso di snobismi fuori luogo di cui talvolta posso essere stato vittima io stesso sia perché poco aduso al corteggiamento delle varie eminenze grigie o dei ritenuti potenti – un tratto comune a molti toscani – sia perché sono un’anima molto concreta che non cerca di millantare alcunché.
Di questi atteggiamenti vagamente elitari e supponenti che ho sentito spesso aleggiare intorno a me mi sono sempre preoccupato molto poco, ma non di rado ho avvertito che la mia competenza è stata sottovalutata.

 Umberto Rovelli:  Mi accorgo che non abbiamo praticamente nemmeno sfiorato il tema delle sedie in plastica. Eppure hai avuto buoni riscontri quantitativi e di critica sia con Eva di Emme I sia con Extra, la sedia componibile selezionata al Compasso d’Oro del 1991. Ne vuoi parlare ora?

 Mauro Pasquinelli:  Eva – che nel 1997, su invito del Salone Internazionale della Sedia di Udine, venne esposta alla mostra Design è progresso – rappresenta uno dei miei inusuali sconfinamenti dalla nicchia tipologica e merceologica della sedia in legno. Già a partire dagli anni ‘80 i costi di produzione per il legno cominciarono a lievitare, le aziende erano interessate a modelli facilmente «declinabili» nei vari materiali ritenendo così di poter ampliare il target di riferimento del prodotto. Questa richiesta di un progetto «intercambiabile» o a «valenza aperta» mi è sempre parsa più una posa che una proposta realmente efficace commercialmente. Inoltre non mi ha mai molto convinto l’assenza di specificità nel progetto: qualsiasi progetto è un gioco di relazione e compatibilità fra idea e materia, ed è tramite uno scambio continuo di informazioni di dettaglio che ogni fase di approfondimento si approssima man mano alla soluzione «giusta». Poiché con tale termine intendo una soluzione progettuale rispondente sia ai desiderata funzionali sia adeguatamente conforme alla materia adottata, mi riesce difficile pensare ad un progetto che fin dall’inizio preveda per la sua realizzazione un ventaglio di opzioni materiali. Questo, anzi, mi sembra un ottimo «metodo» per realizzare prodotti «scorretti».
Negli anni ‘90, comunque, le pressioni ad operare secondo questi principi erano molto forti e, quindi, ho affrontato il tema con Eva, una poltroncina impilabile e leggera con struttura in tubolare d’acciaio cromato realizzata appunto da Emme I in tre versioni; con sedile e schienale in plastica, lamellare e cuoio. Nonostante la mia scarsa propensione fu un’esperienza fortunata e la seduta raggiunse la ragguardevole cifra di circa 30.000 pezzi venduti.
Più complesso è il discorso per Extra, un progetto con proposte solutive al tema della seduta per comunità tuttora interessanti, ma messe malamente in pratica.
Mi spiace dover nuovamente parlar male di un prodotto che è stato addirittura selezionato al Compasso d’Oro, ma, senza essere presuntuoso, ritengo che il premio fosse da attribuire più al progetto – che offriva, tra l’altro, la possibilità di combinare in linea le sedute con un accorgimento semplicissimo – che alla sua realizzazione. Extra valorizzava la semplificazione del tema aggregativo riducendo gli incastri di ogni singola seduta a 4, di cui 3 a scomparsa e uno solo a vista che restava passante per consentire l’agevole raccolta in linea di più sedute. La qualità realizzativa dei piani di seduta, dello schienale e dei tubolari di appoggio al suolo – con saldature fin troppo evidenti – non fece mai evolvere il progetto a qualcosa di più di un progetto sensato. Voglio dire che invece di esaltarne le caratteristiche ideative, la produzione contribuì a deprimerne anche i valori più positivi. Al punto che della sobria semplicità delle forme e degli accorgimenti adottati, il prodotto reale restituiva nel complesso più il tono e il senso della casuale sciatteria piuttosto che quello della meditata essenzialità.
Se c’è una cosa che ho appreso in questi anni è il valore fondamentale che ha per un progetto la competenza e la perizia esecutiva di un’azienda. È una fortuna trovare un partner affidabile che crede nel tuo progetto e sa valorizzarne i pregi almeno quanto limitarne i difetti. Sono stato fortunato ad incontrare Pallavisini agli inizi della mia carriera perché ha dato una prospettiva seriale assai dignitosa alle mie idee e sono stato fortunato a conoscere Adriano Marton e collaborare con la sua Arredo Italiana srl perché la realizzazione «a regola d’arte» anche nella produzione altamente tecnologica è un valore insostituibile del design.
Ma sono abbastanza indignato che questo tipo di caratteristiche non siano la norma nel nostro settore perché ritengo che dare a noi – intendo ai professionisti del progetto – assicurazioni sulla buona fattura dei prodotti è solo una parte della questione. Si tratta di serietà, qualcosa che esubera lo stesso, innegabile, bisogno di bellezza e che compete la sicurezza di un prodotto di serie che quando viene realizzato male diventa addirittura potenzialmente pericoloso o dannoso per la salute delle migliaia di persone che lo acquistano e lo usano ogni giorno.

 Umberto Rovelli:  Per chiudere, se me lo consenti, vorrei sdrammatizzare un po’. Conoscendoti, so che sei particolarmente reticente sull’argomento, quindi ti chiedo direttamente quale sia oggi il tuo rapporto con lo scultore Giuliano Vangi. Mi è stato detto che è uno dei tuoi più grandi collezionisti e nello studio a Pietrasanta fa accomodare gli ospiti proprio sulle tue sedie...

 Mauro Pasquinelli:  Quella di collezionare mie sedie è un sorta di «guaio» che col tempo ho affettuosamente imposto a Giuliano Vangi in quanto da parecchi anni ho instaurato una specie di rito amicale – non so se propiziatorio o meno – di inviargli ogni mio nuovo progetto di sedia che fosse andato in produzione.
Siamo coetanei – classe 1931 –, ma soprattutto abbiamo trascorso insieme a scuola la bellezza di otto anni a Porta Romana. Di quel periodo ricordo ancora la sua grande, fenomenale capacità di disegno e la sua umanità, di persona per bene. Anche dopo la scuola abbiamo continuato a frequentarci e tuttora ci sentiamo telefonicamente, compatibilmente con i suoi impegni che sono notevoli.
Finché la salute me l’ha consentito, ho seguito tutte le mostre di Vangi da quella a «La Strozzina» in Palazzo Strozzi del 1967, partecipando quindi alle varie inaugurazioni successive sia in Italia sia nelle numerose città europee in cui ha esposto con successo in quasi mezzo secolo di attività.
E così come accade che Giuliano mi invii i cataloghi delle sue numerose esposizioni nel mondo, così anch’io ho pensato di segnalare periodicamente la mia attività ad un maestro come lui. Sia perché ho una grande stima del suo giudizio, sia perché mi diverte sentirlo poi riportare i commenti entusiasti degli ospiti – anche molto importanti – che, solitamente, appena si siedono non riescono a trattenersi dal comunicare una sensazione d’estremo benessere. Non importa nemmeno citare chi sia stato l’ultimo in ordine di tempo, il risultato è sempre lo stesso: non appena si siedono esclamano tutti invariabilmente: «Ma com’è comoda questa sedia!». E Giuliano risponde «Le ha fatte un mio amico di Scandicci»...
Sempre a proposito delle nostre frequentazioni negli anni ‘70, ricordo con un certo orgoglio che proprio in occasione di una sua personale nella Bedford House di Londra, nel 1973, con mio grande stupore trovai presso il gallerista l’appendiabiti Cactus che avevo realizzato l’anno precedente per Pallavisini.

 Umberto Rovelli:  Mi chiedo se, sotto sotto, questi tuoi doni non fossero che un modo per esprimere tutt’altra aspirazione, ovvero che al di là della scorza del modesto risolutore di problemi tecnici e pratici, in te covi – inespresso, latente, ma reale – il vivo desiderio d’essere apprezzato anche in quanto autore plastico...

 Mauro Pasquinelli:  Ma no, questo no. Semmai aspiravo ad avere un suo giudizio, un commento su quanto andavo realizzando. Di certo ogni volta mi ha testimoniato che le sedie erano comodissime e ciò mi ha sempre confortato circa il senso ultimo del mio progettare.



NOTE AL TESTO

 (1)  Abbastanza curioso da ricordare è come nel panorama del Triveneto nessuno volesse all'epoca realizzare la seduta, che sarà in produzione dal 1967 al '72. Lo stesso Alfredo Simonit ricorda come, sconfortato dal vedersi ripetutamente rifiutato il progetto, si fece accompagnare nella sede della Pallavisini nel giugno/luglio del '67. La prima impressione del designer non fu certo delle migliori. Dietro un muro grezzo e sotto una tettoia senza pretese stavano due macchine per la lavorazione del legno. A quanto pare però, Pallavisini «era in grado di leggere i progetti come pochi altri imprenditori», gli bastò guardare il progetto per decidere di portarlo al Salone del Mobile che allora si svolgeva a settembre. Nonostante i tempi fossero assai stretti, il primo prototipo fu ottimamente realizzato e Pallavisini riuscì nell'intento, tornando quindi da Milano con «uno zaino pieno di ordinazioni». Il successo della sedia gli consentirà a Pallavisini di realizzare la nuova sede dove saranno poi realizzati gli stessi progetti di Pasquinelli.
Per quel che concerne la filosofia progettuale del progetto di Alfredo Simonit, è ancora l'autore a notare come la 101 nasca «da un'analisi della sedia tradizionale prodotta in zona e dei modelli Thonet con l'intento di recuperare, anche se parzialmente, la curvatura del legno. Il risultato formale, di oggetto della memoria, fin dalla sua prima apparizione sul mercato» (come detto nel settembre 1967) «registra un immediato e consistente successo commerciale ed è tuttora ricordata come uno dei modelli storici più rappresentativi prodotti nel Triangolo della Sedia. Distribuita in tutto il mondo, è stata pubblicata dalle più note riviste di settore nazionali ed internazionali ed è stata utilizzata in alcune ambientazioni cinematografiche».
 (2)  Sebbene non esplicitate come tali, sulla home-page del web aziendale www.prosign.it, è possibile visionare alcune fasi della realizzazione del prototipo e delle prove di sollecitazione effettuate in azienda proprio sulla sedia Quadrifoglio.
 (3)  Luca Vivanti, Tisettanta: quarant'anni di design, quarant'anni di casa, Electa, Milano 2011.



Mauro Pasquinelli Designer
Via Savonarola, 5
50018 Scandicci, Firenze – Italy
www.pasquinellidesign.com
mauro@pasquinellidesign.com
phone / fax: + 39 055 253765
mobile: + 39 338 7880363
ottobre 2012 
Scandicci / Firenze 

Mauro Pasquinelli: Formazione
I.

II.
Mauro Pasquinelli / MP/1 / 1961 / Pozzi e Verga
Mauro Pasquinelli / Mobile componibile / 1968 / Carnevali e Ricci
III.

IV.
Mauro Pasquinelli / Sistema <em>la Rinascente</em> / 1969
Mauro Pasquinelli / Circline / 1969
V.

VI.
Mauro Pasquinelli / Beppa / 1969 / Mobel Italia
Mauro Pasquinelli / Cubo / 1970
VII.

VIII.
Mauro Pasquinelli / Hoppis / 1970 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Maria | Ettore / 1972 / Pallavisini - Lubke KG
IX.

X.
Mauro Pasquinelli / Tecla / 1972 / Pallavisini - Thonet
Mauro Pasquinelli / Cactus / 1972 / Pallavisini
XI.

XII.
Mauro Pasquinelli / Monica / 1973 / Pallavisini - Thonet
Mauro Pasquinelli / Krizia / 1973 / Pallavisini - WK
XIII.

XIV.
Mauro Pasquinelli / Katia / 1973 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Chiara / 1974 / Pallavisini
XV.

XVI.
Mauro Pasquinelli / Lucia / 1976 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Nodo / 1977 / Tisettanta
XVII.

XVIII.
Mauro Pasquinelli / 111 / 1974 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Prototipi contract / 1975
XIX.

XX.
Mauro Pasquinelli / Cristina / 1975 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Lino / 1975 / Pallavisini
XXI.

XXII.
Mauro Pasquinelli / Gina / 1976 / Pallavisini
Mauro Pasquinelli / Ada / 1976 / Snaidero
XXIII.

XXIV.
Mauro Pasquinelli / Tavolo libreria / 1978 / Malobbia
Mauro Pasquinelli / Prototipo tavolo / 1978 / Malobbia
XXV.

XXVI.
Mauro Pasquinelli / Platea / 1979 / MisuraEmme
Mauro Pasquinelli / Europa / 1981 / Salvarani
XXVII.

XXVIII.
Mauro Pasquinelli: Prototipo brevettato / 1982 | Giulia / 1985 / Olivo
Mauro Pasquinelli / Prototipo / 1985
XXIX.

XXX.
Mauro Pasquinelli / Cicloide / 1988 / Calligaris
Mauro Pasquinelli / Balestra / 1988 / Calligaris
XXXI.

XXXII.
Mauro Pasquinelli / Extra / 1991 / Deta Sud
Mauro Pasquinelli / Sport / 1994 / Deta
XXXIII.

XXXIV.
Mauro Pasquinelli / Mondo / 1994 / Calligaris
Mauro Pasquinelli / Zip / 1996 / Sintesi
XXXV.

XXXVI.
Mauro Pasquinelli / Eva / 1997 / Emme I
Mauro Pasquinelli / le sedie Nodo e Giulia nella mostra ICSID a Udine, 1998
XXXVII.

XXXVIII.
Mauro Pasquinelli / Iole / 2000 / Rover Plus
Mauro Pasquinelli / Ines / 2002 / Olivo
XXXIX.

XL.
Mauro Pasquinelli / Dumilla / 2007 / Becker
Mauro Pasquinelli / Quadrifoglio / 2008 / Casprini
XLI.

XLII.
Alfredo Simonit: sedia  <em>101</em> / Paolo Parigi: tavolo <em>Terni</em>, Francesco Geraci: poltroncina <em>Ibis</em>

 




TOP