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 IL DESIGN DELLE COSE PERCEPIBILI. LA LOGICA DELLE DIVERSITÀ NEL PROGETTO CONTEMPORANEO
 Intervista a Nilo Gioacchini

Dopo studi artistici e l’ISIA di Firenze, Nilo Gioacchini (Osimo – Ancona 1946) collabora con lo Studio di Marcello Nizzoli e Associati di Milano, come responsabile per il design. Successivamente, come membro dello studio fiorentino Internotredici, nel 1972 partecipa con Tuttuno alla mostra Italy: The New Domestic Landscape al MoMA di New York. Tutta la sua attività è caratterizzata dall’approccio metodologico, il confronto concreto e pragmatico con il progetto, libero da convenzionalismi specialistici o di tendenza. Come designer ha lavorato in diversi settori: dall’aeronautico al domestico a quello per la collettività. Assicura al prodotto unicità e novità occupandosi di persona di tutte le fasi del progetto. Progettista e art-director di grandi gruppi multinazionali in più settori merceologici, per la riorganizzazione delle produzioni e la progettazione di nuovi prodotti vanta collaborazioni con grandi aziende del settore. Attualmente è art-director e progettista di Hatria (Marazzi Group). Nel 1999, 2001 e 2003 ha ricevuto il Design Plus di Francoforte. Nel 1991 e nel 2001 ha ottenuto le segnalazioni d’onore al Compasso d’Oro ADI. È stato selezionato nell'ADI Design Index 1999, 2000, 2008, 2009 e 2010. Ancora nel 2001 vince l’InnovationsPreis fur Architekten und Technik, mentre nel 2002 e 2008 ottiene il premio Comfort & Design e, nel 2011, il Red Dot Award. Sue opere sono esposte al MoMA di New York.


Qualche tempo fa parlando con Carlo Bimbi, con cui hai condiviso buona parte degli anni professionali ’60-’70, ho avuto modo di manifestare la mia sorpresa per l’attività di Internotredici del periodo. Pur essendone in qualche modo debitori molti vostri lavori dell’epoca potrebbero essere citati quali esempi di un’insorgente controriforma rispetto alle proposte – fin troppo presto rivelatesi più stilematiche che culturalmente pionieristiche – di gruppi di poco più anziani come Archizoom e Superstudio – tra l’altro composti da architetti che, in seguito, hanno quasi tutti diradato di molto le attenzioni alla professione di designer. Cosa mi potresti raccontare di quegli anni compresa la breve escursione lavorativa a Milano presso lo studio Nizzoli?
Erano anni d’intensa e silenziosa attività. L’interesse per le cose che stavamo facendo era così forte che spesso si metteva tra parentesi la visibilità del nostro lavoro. Guardavamo agli altri gruppi con sorpresa e perplessità, catalogando i loro lavori più nell’alveo delle stravaganti e cervellotiche espressioni intorno al progetto che a veri e propri modelli di riferimento.
In effetti si avvertiva l’opportunità di un grande cambiamento e che intorno a noi c’era, tranne qualche eccezione, un mondo tutto da inventare.
Purtroppo in quegli anni, per molti pseudo-imprenditori che non avvertivano la nostra sincerità nel misurarsi con la realtà, l’essere giovani era considerato molto più spesso un’ulteriore opportunità speculativa nei nostri confronti. Milano, comunque, rappresentava un grande richiamo: ci consentiva di capire e di toccare quella realtà che a Firenze si mostrava chiusa ed opaca. E lo studio Nizzoli era allora una delle poche realtà operative nel campo del design e in una infinità di settori, dall’agricoltura al terziario.
Quel periodo lavorativo è stato sicuramente un passaggio determinante e formativo nella mia costruzione professionale. Nonostante i tristi giorni del terrorismo, il mio orizzonte si allargava costantemente ed il design rappresentava un fortissimo richiamo, una meta che ora mi profilava assai più raggiungibile.
In antitesi con Firenze – chiusa e poco sensibile alle innovazioni – Milano mi appariva disponibile, democratica e aperta. Nonostante tutto l’atmosfera milanese, era carica di energia e di voglia di cambiamento. E il mobile totale Tuttuno è stato, forse, il frutto più coerente di quel periodo: già allora venne concepito come modello mentale e meta-progetto in evoluzione, per altro mai definito successivamente.

Giustamene rilevi l’insistere di un metodo. La tua è un’attenzione ad intrecciare pratiche ed ambienti che viene da lontano. Dagli anni ’70, quando nel design passava moltissimo pensiero «spaziale» e non solo «estetico-formale». Oggi la critica si interessa molto ai giovani che, magari ibridando diverse tipologie, interpretano il progetto come invenzione di nuove funzionalità. Ma quella stessa critica – peraltro nemmeno numerosa – sembra distratta nei confronti di quella generazione «intermedia» che ha nutrito la propria gioventù su non dissimili problematiche e tuttora non dimentica che fare design è una scommessa nei confronti del senso e del significato e non solo ricerca formale. Non trovi peculiare questa tendenza a privilegiare gli accoppiamenti giudiziosi dei giovani ripetto a quelli dei più maturi designer?
Ho sempre sentito l’esigenza di un timone ideologico, come riferimento estremo, anche nell’intimità delle relazioni geometriche del disegno. Ho quindi cercato riferimenti non solo giudiziosi ma tangibili, in quanto la forma finale non si risolve tanto nella funzione, ma trova riferimenti assai più articolati; dalla gestualità comportamentale alla sensorialità, dalla ricerca delle emozioni, all’invenzione di un nuovo scenario linguistico.
Anche per questo ho sempre cercato di intraprendere un percorso creativo come discorso non specialistico bensì olistico: una sorta di meccanismo filosofico generatore da poter applicare a tutto ciò che mi capitava di disegnare. Buongiorno, Bilafood o Smailkit (realizzati per Ariete) raccontano in parte questo percorso di ricerca. I risultati sono quelli che sono, tutti purtroppo vulnerabili al giudizio tagliente del tempo.
Quanto al resto, in effetti, molte espressioni della contemporaneità – sia di chi progetta, sia di chi si occupa della comunicazione nelle aziende o nelle riviste di settore – le trovo divertenti, velatamente snobistiche o moralizzanti, ma quasi sempre esili nei contenuti. Segnale evidente che, molto spesso, i linguaggi più profondi – non essendo percepiti adeguatamente – non arrivano dove dovrebbero, a tutto vantaggio di quelli più semplici ed immediatamente visibili. Ma anche in questo caso è un difetto di ascolto che sta alla base della sconfortante, epidermica superficialità dell’attuale progettazione.

Sempre con Ariete nel 2002 hai proposto uno di quelli che – utilizzando il titolo gaddiano – ho definito accoppiamenti giudiziosi. Connubi funzionali al di là della norma – o, se vuoi, della semplice abitudine – che colpiscono per l’ottima scelta dell’abbinamento. Inconsueto ma appropriato è infatti il tuo Bilasit che propone una seduta ibridata con una bilancia pesapersone. Assai utile per le varie funzioni praticate nel bagno e nella camera da letto, il sedile semovibile consente, tra l’altro, di avvicinare alla vista il display a cristalli liquidi agevolando la lettura del peso.
Nel caso di Bilasit ho cercato di mettere in evidenza nuove intelligenze dell’oggetto e della sua utilizzazione. Si tratta di un prodotto inseribile a pieno diritto all’interno di quel «metodo» che parte dai e si rivolge ai comportamenti dei fruitori. Una sorta di «sistema» fenomenologico-progettuale volto a scovare dell’innovazione il tratto più pertinente ed efficace all’uomo. A mio avviso si tratta di una via obbligata in quanto è l’unica che consente di superare sia gli stilemi formali, modaioli o di tendenza, sia le accezioni velleitarie di prodotto plurifunzionale, spesso figlie delle medesime matrici estranee alla progettazione reale. Entrambe (morfologia e plurifunzionalità) sono infatti pesantemente indotte più da strategie di marketing e consumistiche che pertinenti al «fare» umano contribuendo così molto egregiamente ad «oscurare» proprio quanto è invece necessario al progetto.

Nomen omen ovvero nomina sunt conseguentia rerum. Seguendo i latini, a voler leggere presagi nei nostri nomi dovremmo convenire che con te, Nilo, il destino si è davvero avverato dal momento che uno degli ambiti cui hai dedicato grande energia è sicuramente il bagno. Ovvero il regno dell’acqua con tutto il carico simbolico che, dal mondo egizio ad oggi, le è stato attribuito: fertilità, vitalità, creatività, sensualità, purificazione, trasformazione…
Dapprima ho lavorato moltissimo intorno ai mobili e l’arredo della casa con B&B, Arflex, Seven... vivendo questa esperienza come una grande palestra creativa ed un esercizio per capire la diversità e l’evoluzione dell’abitare. Quindi ho sentito qualcosa più di un semplice richiamo verso lo spazio bagno, con i suoi contenuti simbolici e sensoriali, percependo – come forse accade nei déjà vu – che quello era l’ambiente nel quale la mia progettualità era più coinvolta e necessaria.
In questo periodo è stato determinante il mio impegno con Ceramica Catalano dove ho contribuito all’evoluzione di un’azienda – contraddistinta da produzioni di basso profilo – verso alti livelli di prodotto e d’immagine complessiva. E credo mi si possa riconoscere di aver contribuito anche al trapasso dell’interesse progettuale dagli spazi soggiorno alle più affascinanti stanze dell’acqua. Per la prima volta, infatti, ho introdotto in questo settore il concetto continuo di sistema, ovverosia ho introdotto nel settore bagno l’idea di considerare tutti i prodotti come tra loro connessi all’interno di una innovativa strategia filosofica e compositiva. Non più, quindi, i soliti elementi in ceramica tipologicamente e formalmente statici, ma nuovi soggetti e nuove relazioni, protagoniste di nuove espressioni tipologiche.

Investimenti monetari ed emozionali si sono riversati negli ultimi anni nel settore bagno. Interessi societari e pulsioni del pubblico sono andate di pari passo nel porre le basi di un progresso qualitativo, funzionale e tecnologico che non ha riscontro negli altri ambienti domestici. Il bagno è oggi una sorta di Formula Uno della casa, in grado di proporre e sperimentare la domotica quanto se non più della stessa cucina con cui condivide un efficace feeling con la tecnologia. È probabile che questa evoluzione abbia avuto ripercussioni anche sulla professione, sul modo di intendere la progettualità che, se da un lato ha imposto un costante aggiornamento, d’altro canto ha anche creato nuove forme e disposizioni per entità funzionali nemmeno tanto radicate della realtà italiana. Com’è cambiato il bagno nella storia degli ultimi 20/30 anni?
Per molti anni la zona giorno è stata ritenuta emblematica per la casa contemporanea, di questa si è riempito il progetto domestico, ricolmandola di forme, materie, colori e tendenze fino alla saturazione.
Già negli anni ’80 si avvertiva l’emergente trasformazione dei bisogni che dalla pura e un poco astratta fisiologia apparivano sempre più coinvolti con la sfera emotiva. La «cosiddetta» funzionalità cedeva spazio al cervello limbico delle emozioni. Il primo a teorizzare questo passaggio di paradigma dalla funzione all’emozione, ovvero dalla prestazione alla narrazione, è stato il futurologo danese Rolf Jensen.
È emerso a questo punto con tutta evidenza che il territorio della ricerca doveva spostarsi dalle qualità tecniche e prestazionali – ormai date per acquisite e comunque non più considerate dirimenti per il successo di un prodotto – ai valori in cui era coinvolta tutta la sfera sensoriale. Per la prima volta il bagno è apparso, per così dire, «nudo» nella sua «laconicità» emotiva; un contenitore vuoto, pronto per essere riempito di nuovi soggetti disposti a mettere in gioco più direttamente la fisicità del corpo ed un più approfondito stato di benessere.
A questo nuovo pensiero progettuale sono sicuramente ascrivibili molte delle mie recenti produzioni, dal miscelatore monocomando Zoom di Teknobili alle cabine doccia ideate per Teuco. Quest’ultime in particolare, possono essere considerate esemplari in quanto, spogliate di tutti i vecchi contenuti formali propri dei linguaggi plastici, sono diventate micro cellule dotate di prestazioni quasi esclusivamente emozionali.

Scusami se insito sul tema, ma sono abituato a ritenere tecnologia ed emozione due fronti in palese contrasto, quindi insisto col porti la questione perché se è vero che l’apporto tecnologico ha reso possibile un ventaglio di opportunità e molte occasioni di progresso, a mio parere queste sono eminentemente valutabili in termini di comfort e standard qualitativi e non certo di «emozione» ambientale. Per quest’ultima, a mio avviso, gioca infatti un ruolo sovrano la sensibilità del progettista che deve essere in grado – come accade ad esempio nei tuoi sistemi di rubinetterie C e Oz, realizzati con Teknobili – di far emergere tutto il calore della gestualità proprio tramite ciò che tende a obliterarne il ruolo e la necessità.
La continua ricerca è forse, l’unica espressione coerente del mio lavoro. Ogni progetto porta con sé situazioni e condizioni sempre diverse, per me è stato quindi necessario individuare innanzitutto un metodo che, come un timone filosofico, fosse ad un tempo indifferente alle diverse contingenze ma operativamente proficuo, che fosse cioè in grado di coinvolgere, manipolare e, talvolta, dirottare le prescrizioni funzionali sulle quali mi veniva di volta in volta proposto di lavorare.
La tecnologia non è mai stata per me un valore simbolico o espressivo da ostentare ma semplicemente uno strumento per ottenere, con disinvoltura linguistica un determinato risultato.
Quando la si esibisce è come mettere un puntello ad una struttura che non regge…

A questo proposito al Cersaie 2007 hai presentato con Hatria un progetto assai innovativo – la prima applicazione del riscaldamento alla ceramica sanitaria – dove l’apporto tecnologico è del tutto occultato, riuscendo a creare una più serrata e percettivamente coesa sintesi fra impianto di climatizzazione ed elementi sanitari. Puoi parlare di questa esperienza?
La tecnologia può essere utilizzata senza ostentarla all’interno dei prodotti per dilatarne, ad esempio, la fisicità e l’espressività materica. È il caso della ceramica che radicati luoghi comuni vogliono associata ai materiali freddi mentre io, da sempre, ritengo che sia un materiale assoluto. Sulla base di questa convinzione ho sempre pensato che fosse possibile intervenire tecnologicamente espandendo le valenze materiche della ceramica, creando suoi nuovi coinvolgimenti sensoriali, facendo quindi diventare la ceramica – poiché la tecnologia lo consente – un materiale caldo.
Del resto un thè caldo si sorseggia da una tazza in ceramica, e questa la si contiene piacevolmente nei palmi delle mani in quanto emana un calore assai diverso da quello metallico di un qualsiasi normale radiante. In maniera simile, con Easywarm® non ho fatto altro che intervenire nell’ambiente bagno facendo sì che, mantenendo le qualità primigenie della materia, se ne aggiungesse un’altra in grado da dilatare percettivamente la qualità dell’insieme. Il fatto che, rispetto alle strategie tradizionali, questo sistema proponga una nuova diffusione del calore creando un diverso rapporto percettivo della climatizzazione ambientale non è quindi che una conseguenza di quella mia ostinata convinzione circa le implicite virtualità del materiale.

Riprendendo il discorso sul ruolo molto particolare che tu e Carlo Bimbi avete giocato nella storia del furniture sia individualmente sia come Internotredici, mi sembra abbastanza evidente come il più sopra accennato «pensiero spaziale» sia una componente rilevante del tuo modo di affrontare il progetto, in cui, forse, non è errato leggere una costante tonalità cinetica e fruitiva. A partire da Tuttuno (e dal quasi coevo Quadrone) in cui l’attore, implicito e fondamentale, coinvolto nel progetto, è sempre l’uomo, che si appropria ogni volta delle varie opportunità offerte dallo scrigno di modalità abitative racchiuse nel vostro «mobile totale».
L’alternarsi ossessivo di tendenze molto spesso prive di reali contenuti, ha reso la forma degli oggetti prigioniera di scenari e linguaggi effimeri, molto spesso fomentati da una certa stampa di settore.
Per me il dinamismo non è mai stato un alibi formale, ma anzi un motivo in più per attribuire alla soluzione una variabilità a costo zero che potesse coinvolgere e stimolare nuove percettività o, in certi casi, nuovi modelli comportamentali diversi.
I progetti che citi sono forse, visti oggi, un po’ ingenui nelle premesse e non del tutto approfonditi, ma di sicuro hanno affrontato con generosità delle esigenze reali. Voglio dire che hanno inteso confrontarsi con comportamenti concreti di una quotidianità diffusa e non certo virtuali ed elitari come più spesso accade oggi. Il semplice fatto che oggi, dopo quasi quarant’anni, siano ancora plausibili, ne è una patente dimostrazione.

Ma si può rilevare più o meno il medesimo substrato inventivo anche in progetti successivi: nel divano letto Pigro del 1982, nel sistema di imbottiti trasformabili Azimut del 1994, nella seduta trasformabile Zig Zag del 2002, nel sistema di sedute impilabili Otto del 2003 e nel sistema di attrezzature e piani di lavoro per ufficio Joy del 2004. Il fil rouge che sembra accomunare questi prodotti palesa la tua forte propensione ad ambientare il prodotto, ovvero ad interpretare in primo luogo il prodotto come «parte di» una dinamica più ampia che ha forti ripercussioni sulle diverse «abitabilità» dello spazio domestico. Il che per certi aspetti è una ovvietà ma mi sembra ponga come tra parentesi i tuoi interessi estetico-formali; ovvero li avverto come «secondi» rispetto ad un approccio al progetto che potremmo definire in primo luogo «tipologico». E ciò è davvero notevole se si considera che la più immediata qualità di molti tuoi lavori è proprio la bellezza.
Riconosco, nel mio lavoro, un approccio sicuramente più tipologico che formale in quanto lo ritengo più importante e sincero. In un certo senso è un po’ come appropriarsi della radice del concetto anziché delle volubili varianti periferiche più vulnerabili alle contaminazioni ed ai cambiamenti.
Questo percorso, per me, è ormai diventato una forma, o meglio, un abito mentale più o meno conscio che non credo riuscirò più a modificare o dismettere.

Colgo l’occasione della lettura della tua ultima intervista – pubblicata in Pane e progetto. Il mestiere del designer di Stefano Follesa – per aggiungere una considerazione a quanto fin qui detto. Dal tuo intervento in quella sede emerge una linea «difensiva» nei confronti dei pericoli insiti nella professione che si sostanzia in due mosse. Dapprima – come peraltro hai ribadito anche ora – segnali il tuo costante interesse riversato sui «sistemi di prodotto» che offrono più garanzie di resistenza nei confronti di aziende sempre più «trasformate in commerciali». In seconda battuta, coltivando quello che definisci un «atteggiamente interiore» – una predisposizione – a non seguire strade già battute. Una sorta di metodico rallentamento dei tempi – costellato di inciampi ricercati o reali – in grado di scongiurare le facilità dell’automatismo. Quasi che a preservare la sorgiva creatività occorra il filtro di un contraltare polemico; un demone che – come nell’arte – vive drammaticamente lo scontro fra psiche e techne ed forse più incline a suggerire questioni rilevanti circa il senso e l’emotività che non a risolvere funzioni…
Fino ad oggi il prodotto è stato coinvolto da un consumismo ideologico sfrenato, dove gli oggetti si sommano e sovrappongono l’uno sull’altro ininterrottamente. Oltre al basso profilo qualitativo si è arrivati ad idealizzare l’inutile quando questo, almeno un tempo, non era mascherato da simbolismi di una pseudo-cultura materiale… Non credo che oggi questo scenario sia più accettabile.
Da diversi anni cerco di lavorare per sottrazione, il sistema è un concetto che mi ha permesso di capire a fondo questa ipotesi: la trasversalità dei prodotti organizzabili non più solamente per affinità compositiva o formale ma secondo la logica delle diversità.
L’armonia è fatta da elementi discordanti, questo rallenta la quantità numerica dei codici di un catalogo ed aumenta le quantità prodotte da un solo impianto, ammortizzandone più velocemente gli investimenti.
So che questo non appare così evidente ma è proprio così… aumentando l’offerta si arriva ad una sorta di rallentamento dei tempi e dei costi.
D’altra parte è falso parlare di minimalismo se non si conosce concretamente la reale crisi della materia.
Senza demagogia, penso che sia necessario il filtro di un pensiero antagonista, fortemente critico nel fare; libero e semplice. E credo sia arrivato il momento di una nuova consapevolezza progettuale dove il termine «creatività » non denoti un’espressione retorica o ancora peggio anarchica, bensì un valore reale, una qualità interiore che sia oggettivamente riconoscibile.

Visto che – come certi allenatori – non parli volentieri dei «singoli» prodotti preferendo dar conto dell’insieme della «squadra», per concludere ti chiedo esplicitamente di parlarmi di G-Full, singolare progetto che pare sancire una decisiva riforma del modo di intendere l’ambiente bagno. Raramente come in questo caso il termine «prodotto» pare riduttivo per definire la portata di un lavoro che, mese dopo mese, sta diventando sempre più simile a quel «meta-progetto in evoluzione» che è stato a suo tempo Tuttuno.
Oggi G-Full equivale ad un vero e proprio microcosmo sperimentale che però di gratuito e velleitario ha ben poco. E vi ritroviamo una tale miniera di accorgimenti – dalla panca wellness al sistema di fissaggio magnetico della tavoletta, dalla doppia erogazione del bidet al contenitore che, sfruttando il ridotto spazio dell’asse attrezzato sospeso, offre ulteriori modalità mimetiche all’insieme – che pare davvero di assistere in diretta alla genesi di un nuovo modello comportamentale.

Gli oggetti vivono in uno spazio virtuale concentrico all’interno del quale – ovvero al centro – sta l’uomo. Questo è il luogo delle relazioni sensoriali ed emozionali. Da tempo lavoro considerando questo concetto come una sorta di «mandala» mentale/filosofico propedeutico al progetto.
Pertanto penso sia riduttivo considerare G-Full come una proposta semplicemente tipologica, anche se allo stato attuale appare proprio così.
All’inizio è stato necessario trasformare un piano funzionale in una panca senza occultare, separare o mimetizzare tra loro le diverse funzioni, anzi cercando piuttosto di evolverle, dilatandone la «consistenza» emotiva.
G-Full può essere anche scambiato per un oggetto semplicemente polifunzionale ma, in realtà, è qualcosa di molto più… Oltre a segnare un trapasso tipologico, archetipico e comportamentale, G-Full si spinge ancora più avanti, divenendo una sorta di matrice progettuale, un motore generatore di infinite soluzioni, per una nuova organizzazione dello spazio. Il bagno, così concepito, non contiene solo funzioni più o meno compresse ma nuove soluzioni emotivamente più coinvolgenti.
Quello che tu definisci come asse attrezzato in realtà diventa una porzione di piano che si dilata allungandosi su tutto il perimetro e, quando si rende necessario, cambia di livello (la quota in altezza di un lavabo è diversa da quella di una seduta). Qualora lo spazio lo consenta, diventa penisola o isola.
Le diverse caratterizzazioni qualificano la forma senza che questa accenni alla monotonia e così il vecchio impianto, da puntiforme, si trasforma in lineare con tutti i vantaggi che ne derivano.
Ma tutto questo mondo di opportunità e soluzioni sta, per così dire, davanti a qualsiasi sua concretizzazione. È infatti solo avvertendo prima le potenzialità globali offerte da quello che, in effetti, è il progetto di nuovo ordine che diventa poi facile immaginare che tutto ciò non è un semplice «prodotto multifunzionale» ovvero un concetto minimale di accessori ma, al contrario, un vero sistema di funzioni e tipologie; una sorta di linea di fuga, di nuovo orizzonte nello spazio delle sensorialità ideato per un rapporto più armonico e sincero con l’uomo.


Nilo Gioacchini Design | Opus Design
loc. Bardiglioni - 50060 - Pelago - Firenze
phone 0558326789 | fax 0558326958
n.gioacchini@opusdesign.it
www.gioacchinidesign.it


Arflex
www.arflex.it
Ariete
www.ariete.net
B&B Italia
www.bebitalia.it
Castelli Haworth
www.haworth.it
Ceramica Catalano
www.catalano.it
Ceramica Dolomite
www.ceramicadolomite.it
Cristina Rubinetterie
www.cristinarubinetterie.com
Elitable
www.elitable.com
F.lli Guzzini
www.fratelliguzzini.com
Hatria
www.hatria.it
Ideal Standard
www.idealstandard.it
Nobili Rubinetterie
www.grupponobili.it
Schiedel
www.schiedel.it
Segis
www.segis.it
Sevensalotti
www.sevensalotti.it
Teuco
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Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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Umberto Rovelli 


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I.

II.
III.

IV.
V.

VI.
VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
XIII.

XIV.
XV.

XVI.
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XVIII.
XIX.

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XXII.
XXIII.

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XXV.

XXVI.
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