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 PAOLO FAVARETTO, INDUSTRIAL DESIGNER


Nel corso di una carriera professionale, l'età di mezzo è, sovente, il periodo più propizio per interrogarsi sulle qualità essenziali della propria attività lavorativa. L’opportunità di pubblicare una monografia costituisce allora l’espediente per interrogarsi a fondo sul senso del proprio operare – magari sottraendosi per qualche tempo ad una vita lavorativa frenetica.
Un libro diviene così l’occasione per svincolarsi dal contingente, effimero confronto con la quotidianità, per ritrarsi dal flusso operativo e meditare su sé stessi, facendo, per così dire, “anima” circa il proprio “fare”.
Così, in parte, sembra essere accaduto per Paolo Favaretto, industrial designer, la monografia a cura di Alberto Bassi, con cui la casa editrice padovana Il Poligrafo ha inaugurato la nuova collana Fare Design. E, solo in parte, s'è detto, per il semplice motivo che sarebbe assai riduttivo rinvenire come occasionale la componente meditativa in un progettista che per vocazione involge costantemente segno ed operatività con un atteggiamento critico assai coerente.

Ripercorrendo il contributo di prefazione di Aldo Colonetti emerge infatti una tensione che ha da tempo condotto l’opera di Favaretto sul fronte del design di servizio. Il che significa design rivolto in primo luogo agli utilizzatori, ma, soprattutto, in grado di leggere la differenza. Come sostiene Colonetti, “il design è l’unico linguaggio contemporaneo in grado di produrre differenza”, ma quel che più conta è che l’approccio dell’architetto padovano nei confronti della diversità dalla norma, fa di Paolo Favaretto un designer che legge il reale ed opera “oltre lo standard”.

Entro tale linea critico-progettuale – ben delineata dall’acuto testo di Alberto Bassi – dobbiamo intendere anche una velatamente polemica “rinuncia al protagonismo” di Favaretto: una ricerca linguistica volta e realizzare prodotti sinceramente anonimi, in cui il design non sia “esibito”, bensì tenda piuttosto alle regole profondamente più opportune del “dialogo con le esigenze dei fuitori” e della “capacità di mantenersi sul mercato” che contraddistingue molti prodotti evergreen e si avvicina agli illustri esempi di anonimato virtuoso, progettati e preferiti dai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni.
Caratterizza l’intero periodo considerato dal volume, un’attenzione al poièn – cui allude anche il titolo della collana – che, come nota ancora Alberto Bassi, è cifra di una relazione con la committenza che si contrappone ad una – dominante e talvolta sconsiderata – visione estetizzante del design.

Fatto, questo, che non intende ridurre il contributo comunicativo attribuito al disegno dall'attuale presidente dell'ADI NordEst. Il disegno resta comunque l'elemento primo di decodificazione dell’oggetto per ogni fruitore e come mater di ogni prodotto ha per Favaretto un significato strumentale nel duplice senso di coagulo ed espressione formale, frutto di una ricerca tesa a rendere plasticamente l’idea. Il cui risultato non è per nulla automatico ma, anzi, per compiersi pretende una sincera pratica di quel pensiero della mano, cui Giancarlo Carnevale ha dedicato intense pagine sulla rivista Op. Cit. nel 1991.

Il percorso che porta alla creazione della forma degli oggetti con cui veniamo in contatto ogni giorno, ha perciò ancora margini d’imponderabile, di genuino stupore e sorpresa – talvolta gioiosa come accade per l’acquarello di Venezia in cui lo stesso designer si scopre a commentare l’esito con le parole: “Questa è bella. E molto”.
La forma delle cose, sembrano alludere le trenta schede progettuali raccolte nel volume, si dà a noi in stato di grazia. E – come nella lettura di Gregory Bateson –, essa non è proterva scaturigine di una singolarità, quanto piuttosto del suo esatto contrario: la forma accade per noi proprio in ragione di una diminuzione dell’io, e solo in quanto, umilmente, ci assoggettiamo ad essa.

Quella stessa umiltà che porta ad accettare la nozione di impermanenza della propria condizione di abilità (soggetti come siamo tutti ad una progressiva disabilità per il semplice invecchiamento) e che, sola, può condurci alla comprensione di uno spettro ampliato di esigenze e bisogni implicito nel termine “design for all” che sintetizza l'intento programmatico dell’Istituto Italiano Design Disabilità – IIDD (di cui Favaretto è stato co-fondatore, vicepresidente, presidente e componente del consiglio direttivo e che fa parte dell’European Istitute for Design and Disability). Di questa, ormai più che decennale, esperienza di Favaretto dà conto il testo di Fiorella Bulegato, ripercorrendone le tappe essenziali fino alla colonnina Sos per pronto intervento e al prototipo Abbraccio, destinato ai bambini cerebrolesi.

Come detto, degli oltre 130 progetti elencati nel regesto conclusivo, il volume presenta 30 schede relative a prodotti che, coprendo un arco di oltre 30 anni, riflettono una immagine articolata su più fronti: spine elettriche, bicchieri e decanter, maniglie, lampade, divani, sistemi operativi per l’ufficio – Power Beam, Anyway, Layer –, poltrone per auditorium e teatri – Goldoni, Dama –, poltrone operative – CS America, Reflex, Assisa operativa, Uniqa –, sedute – Agorà, Attica, Assisa, Cameo, Issima –, strumenti per scrivere – Dandy –, strumentazioni medicali – Linea, Light&Light –, telefoni – T630 –, veicoli multifunzionali – Dolly.

Una panoramica progettuale che descrive un composito quadro creativo di assoluto rilievo. In cui, tra l’altro, Favaretto, manifesta una spiccata attenzione e propensione verso prodotti che richiedono competenze specifiche, delineando anche – oltre alle proprie notevoli capacità operative con legno, metallo, materiali plastici, ecc. – una costellazione altamente rappresentativa della progressiva evoluzione del rapporto designer/azienda, divenuto sempre più articolato e complesso. Un contesto, quello attuale, fortemente segnato – come nota ancora Alberto Bassi – da “una parcellizzazione delle responsabilità e da un elevato numero di referenti e decisori” che non di rado contribuisce a depauperare l’ambito di competenza del progettista.

Una situazione critica e per certi aspetti “stimolante” ma che forse – per usare le parole di Favaretto –, “non sempre permette di lavorare con tranquillità e costruire nel medio-lungo periodo. Anche perché sono cambiati gli imprenditori: la prima entusiasta generazione di industriali è stata sostituita dalla seconda che fatica a trovare una propria identità; oppure all’interno dei grandi gruppi internazionali, esiste un elevato turn-over ed è faticosa la costruzione di un rapporto personale che rimane sempre il segreto per ottenere buoni risultati complessivi”.












Paolo Favaretto, industrial designer
a cura di Alberto Bassi
testi di Alberto Bassi, Fiorella Bulegato, Aldo Colonnetti
2006, Il Poligrafo, Padova

a cura di: 
Umberto Rovelli 
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