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 L'EMOZIONE TECNOLOGICA. IL DESIGN DI JEFF MILLER 


Jeff Miller nasce a New York nel 1968. Nel 1990 si laurea in Industrial Design presso il Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pennsylvania e dal 2002 è il fondatore di Jeff Miller Design. In precedenza ha ricoperto la posizione di vicepresidente del design presso ECCO Design, New York, dove per 13 anni, si è occupato dello sviluppo di prodotti per il mercato consumer ed elettronico, medicale, sportivo ed informatico, oltre a mobili per la casa e l'ufficio.
Oltre al ruolo di consulting designer, sviluppa i propri arredi ed oggetti, molti dei quali esplorano le proprietà strutturali inerenti dei materiali utilizzati, e cerca di presentare grandi idee da mezzi semplici. Da questa sua visione sono nati i progetti che ha sviluppato con Baleri Italia, prodotti semplici nelle linee e nelle forme, ma ad altissimo contenuto tecnico dal punto di vista dei materiali e delle lavorazioni.
Ha ricevuto numerosi premi di design e i suoi lavori sono stati mostrati e pubblicati in musei e gallerie, giornali e riviste internazionali; ha registrato diversi brevetti ed è invitato a tenere lezioni di design da importanti scuole di design e istituzioni in tutto il mondo.


(Interviene e traduce Jeff Miller, Federico Carandini, direttore artistico di Baleri Italia)

F. C. La presentazione è completamente su Jeff Miller, però prima vorrei dire alcune parole su Baleri Italia, in modo da far capire le ragioni di questa collaborazione.
Baleri Italia ha avuto un ruolo storico, nel suo primo periodo di vita. È stata una azienda che ha fatto una grande opera di talent-scout nel mondo del design – ad esempio due figure oggi molto famose quali Philippe Starck e Hannes Wettstein.
Nel 2004 Baleri Italia ha cambiato proprietà e management e la prima cosa che questa nuova struttura ha fatto è stata riprendere questa identità storica, cercando quindi di identificare nuovi e giovani designer che potessero riportare slancio e rinnovamento nel design dell'azienda.
Però è stata cambiata anche la filosofia, nel senso che insieme allo spessore progettuale abbiamo inteso sviluppare un linguaggio che integrasse nella classica identità del prodotto di design tematiche più emotive, definibili con vari vocaboli quali: solarità, calore, emozione, colore, sensorialità e sensualità; qualcosa, perciò, di più vivo ed impulsivo.
Altro elemento fondamentale della nuova filosofia aziendale è l'ecletticità.
Nella nostra visione di casa si integrano perfettamente prodotti di styling – che magari non presentano una grande innovazione tecnologica o di materiali ma propongono una nuova visione estetica e innovativa –, e prodotti di industrial design – ovvero prodotti in cui risiede un forte spessore progettuale e una ricerca specifica di materiali.
Questi due linguaggi per noi non solo sono compatibili, ma necessari per creare questa visione di casa eclettica che risponde di più a quello che è il contesto abitativo di oggi.
Jeff Miller entra perfettamente in questo discorso – sicuramente da un versante più industrial design che styling –, perché per noi è capace di sintetizzare entrambi i linguaggi. Jeff ha sempre avuto una passione per il mobile e per l'arredo in generale, provendendo inoltre da una grande esperienza di product design. Ciò è molto importante per la nostra collaborazione, in quanto forse proprio per questa esperienza di lavoro – principalmente legata allo sviluppo di prodotti commerciali realizzati spesso in plastica –, Jeff ha sviluppato una sensibilità eccezionale riguardo lo sviluppo di forme organiche tridimensionali – curve complesse –, che si staccano da quello che era il linguaggio rigido, rigoroso, rettilineo, di un certo passato aziendale. Ciò si manifesta anche nel modo in cui lavora, in tutto quello che è il processo di sviluppo del prodotto.

Jeff ed io, in un passato non troppo lontano, abbiamo studiato e lavorato insieme e sono sempre rimasto colpito da come riesca a visualizzare cose che la maggior parte delle altre persone non riescono a rappresentare. La seconda grande capacità è quella – magari al giorno d'oggi può sembrare obsoleta ma per me rimane elemento fondamentale di un grande designer –, di saper schizzare a mano in maniera ineccepibile. Questo non tanto come abilità artistica – che può interessare o meno –, ma in quanto primo strumento di comunicazione di un'idea. Prima infatti che un'azienda investa soldi – nella ricerca ecc. –, è proprio lo schizzo a mano libera che comunica la genialità, l'interesse, la complessità di un'idea. Questo spesso in Europa è antitetico, ma Miller ha una grande capacità di modellare anche in 3D al computer, che per noi è fondamentale per lo sviluppo dei prodotti.
L'integrazione di tutte queste doti e abilità, permette di comunicare in maniera molto efficace e, siccome il nostro è un lavoro in grandissima parte di comunicazione, il poter trasmettere un'idea in maniera efficiente sin dall'inizio è strettamente legato alla sua realizzabilità futura. Tutto ciò è molto importante per la nostra azienda perché abbiamo bisogno di mantenere una identità di design, perciò il prodotto deve avere un certo spessore progettuale, un certo rigore di innovazione, di ricerca tecnologica. Ciò significa proporre nuove soluzioni estetiche e strutturali, conferire la giusta integrazione di forma e funzione, ma, soprattutto, avere nello spessore progettuale l'abilità di inserire emozioni.
Sto parlando molto di disegno, di tecnica, di forma e funzione, e magari meno di intelletto. Non è che ci stiamo staccando da una tradizione intellettuale e culturale del design italiano, in questo senso c'è molto rispetto verso quello che è il passato anche recente del design, però sicuramente c'è una volontà anche di farlo scendere da un piedistallo su cui si è trovato negli ultimi anni e portarlo più vicino al pubblico.
Adesso la parola a Jeff Miller…

J.M. Voglio sottolineare il fatto che il nostro dialogo di lavoro forse è privilegiato dal fatto che abbiamo studiato insieme Design all'Università, e abbiamo lavorato poi per quasi 10 anni nello stesso studio che si occupava appunto di design.
Lo studio per cui ho lavorato a New York si chiama ECCO Design. Piccolo, per i criteri americani, con 10 persone circa. Si occupava di una gamma vastissima di prodotti, che andavano da cose assolutamente industriali, all'equipaggiamento medico, ai mobili, all'illuminazione ecc.
Perciò un'esperienza molto diversificata, dove quello che si imparava in una categoria industriale veniva poi portato in un'altra.
Riguardo alcuni dei miei progetti Stainless Steel Ruler, ad esempio, indica un po' la mia filosofia progettuale. Ideato insieme a Rama Corpash ed Eric Chan per l'azienda Ness, è un righello con l'unità di misura in pollici da una parte e in centimetri dall'altra, con un ricciolo che mi consente di tirarlo su, di prenderlo con le mani da un tavolo, ecc. Oggetto molto semplice, che rappresenta però un ottimo esempio di integrazione tra forma e funzione.
Dietro a tutti questi progetti, al di là del risultato estetico, c'è sempre comunque una attenta ricerca su quel preciso tipo di mercato. Nel caso di Executive Standup Stapler, spillatrice progettata insieme ad Ethan Imboden ed Eric Chan per Hunt/Boston, è stato curioso scoprire che c'erano tre modi di poterla usare da parte del cliente, il che implica tre modi diversi di prenderla, che significa poi altrettante posizioni della cucitrice sul piano d'appoggio. La cosa interessante a livello di industrializzazione è che in questo progetto ho eliminato quella che è la classica struttura di un prodotto di questo tipo, cioè un meccanismo interno di metallo e poi una copertura di plastica. Qui invece è lo stesso metallo stampato che forma le parti funzionali, diventando poi anche guscio esterno ed elemento estetico.
Nel progetto delle semplicissime Goody hairbrushes, spazzole per capelli ideate per l'omonima azienda, il cliente aveva chiesto che questo oggetto comunicasse con il pubblico femminile. Ovviamente l'intenzione era stata eliminare quello che era lo stereotipo di femminile dal progetto, ossia tutta una serie di colori e di linguaggi formali.
Bisognava fare invece un'analisi ed una ricerca per cercare di capire quale aggettivi potevano essere legati ad un'idea di donna contemporanea. Tutti questi vocaboli e questi elementi hanno creato poi il linguaggio che è stato usato in questa linea di prodotti. Quelle aperture nella spazzola non sono un dettaglio estetico ma sono per permetterne un uso professionale, perchè l'aria calda deve passare attraverso la spazzola mentre si pettina. La forma elicoidale inoltre permette, semplicemente ruotando il manico, di usarla da entrambe le parti.

F. C. Una curiosità: quello stesso anno a New York, era il 1995-96, tre studi separati hanno fatto per caso tre prodotti per tre clienti diversi usando questa plastica traslucida trasparente colorata. La cosa poi è esplosa e questo prodotto, per lo meno negli Stati Uniti, è divenuto un po' una icona di un certo cambiamento.

J. M. Un oggetto che viene usato fondamentalmente da chef professionisti, è il coltello elettrico. A livello di trattamento formale del prodotto è abbastanza interessante, in quanto questi oggetti solitamente tendono a sembrare degli elettrodomestici abbastanza orrendi. Perciò ho cercato di riportare il mio progetto, CEK-40 Electric Knife disegnato per Cuisinart, ad avere la forma ed il linguaggio di quelli che sono i coltelli di uso professionale da cucina, facendolo comunicare con l'utente finale in maniera abbastanza chiara.
Un altro prodotto a cui ho apportato piccoli ma funzionali accorgimenti è il bollitore – oggetto che è abbastanza comune anche in Italia, ma nel mondo anglosassone è sicuramente presente in ogni casa – Insight kettle, prodotto dalla azienda OXO. Il mio scopo era quello di far aprire la valvola del beccuccio ogni volta che si stringe il manico, cosicché si può riempire dal rubinetto senza dover togliere il coperchio.

F. C. Sembra una sciocchezza, in realtà è il tipico elemento che ti permette di presentare un oggetto che fa qualcosa che nessun altro, nella stessa categoria, riesce a fare.

J. M. La linea di prodotti elettronici fatta per Virgin segue un tema specifico: il rapporto che ognuno ha con la musica e con la comunicazione nell'arco della giornata.
Portable CD player è un oggetto molto semplice ma ha una estetica ragionata; entra nel palmo della mano con una banda elastica dietro, per cui si può tenere attaccato alla mano mentre si fanno anche altre attività.
CD-Clock Radio, al di là della forma, ha un lavoro molto interessante nell'interfaccia ed il TV – DVD player rispecchia le linee semplici ma di grande effetto di cui parlavo prima.
Ho lavorato molto con aziende che sviluppavano oggetti del mondo della telecomunicazione, come LG, e molte delle idee e dei concetti che venivano presentati venivano definiti impossibili, al momento, da eseguire. Poi invece sono diventati, magari 5 anni dopo, la base per tutta quella tipologia di prodotto. Dunque è importante, quando si propone qualcosa ad un cliente come designer, da una parte capire cosa di quel progetto il cliente può usare nella maniera più efficace, ma anche ricordarsi che probabilmente dopo 2, 3 o 5 anni, il cliente ci arriva ugualmente da sé sfruttando quello che hai fatto tu. È chiaro quindi che bisogna tenersi strette le proprie idee.
Il sistema di tavoli e di gestione dello spazio-ufficio Kiva, progettato per l'azienda Herman Miller, è stato studiato in un momento in cui è diventato necessario rispondere alla necessità d'uso dell'ufficio moderno; perciò spazi continuamente in trasformazione, non solo mobili che si possono trasformare ma soprattutto che si devono muovere da un punto ad un altro, dove non esiste più una struttura permanente.

F. C. La cosa che voglio aggiungere, è che il tipo di lavoro che veniva fatto in quello studio, che si trattasse di una spazzola per capelli o di un tavolo, richiedeva sempre una grossa ricerca alle spalle, che ti porta comunque a proporre delle soluzioni e delle idee non solamente tramite il tuo filtro soggettivo di persona ma tramite anche una certa analisi di quello che sarà poi l'uso "pubblico" di quel determinato oggetto.

J. M. Kiva è stato un progetto sicuramente complesso, in quanto si trattava di ri-pensare interamente lo spazio ufficio. Ci sono voluti 3 anni infatti, dal primo concetto alla esecuzione della linea di prodotti. E si nota subito la differenza dall'esperienza italiana, dove invece i tempi dello sviluppo di un prodotto cercano sempre di essere e sono molto rapidi, perché tutta una serie di considerazioni sono più intuitive e meno analitiche. Questa è una grande differenza tra il mondo americano e quello italiano.
Spider Work Desk, sempre per l'azienda Herman Miller, doveva essenzialmente far fronte alla competizione di Ikea. Avendo tratto beneficio da tutte le ricerche effettuate per il progetto precedente, è stato realizzato in 3 mesi anziché in 3 anni. Perciò con una freschezza ed una immediatezza molto più simile al modello italiano. Le aziende americane, che si trovano a lavorare su budget di 4-6 miliardi di dollari su un progetto, fanno molta fatica, come cultura interna, a muoversi in maniera immediata. Qui hanno fatto un cambiamento di marcia per necessità di mercato, ma di solito ci vogliono meeting infiniti con 300 persone del dipartimento marketing, d'ingegneria, ecc.

F. C. Un'idea pensata per 8 anni non è detto che sia migliore di una pensata per 8 secondi, perché ovviamente dipende da chi è che la pensa…

J. M. Per dare un'ultima idea di questa metodologia di lavoro, ossia di grande attenzione sulla ricerca, bisogna dire che tipicamente il progetto era diviso in diverse fasi: fase 0, fase 1, fase 2, fase 3, ecc. Una volta si cominciava dalla fase 1, che erano gli schizzi delle idee, mentre la fase 0 è nata negli anni '80 ed era la fase di ricerca, che su un tipico progetto americano rappresenta circa il 50-60% del progetto.
Un mio chiaro esempio è il progetto di un nuovo frigorifero, dove viene analizzata giorno per giorno, minuto per minuto il posizionamento degli oggetti, quante volte si apre il frigorifero, dove mette il latte una ragazza trentenne e dove lo mette un uomo cinquantenne, ecc. Lo scopo è che non rimanga nulla con un punto interrogativo, bisogna conoscere tutto.
I progetti del tavolo Sollow, della sedia Xtrudy Lounge e dello sgabello Boron indicano il momento di cambiamento, in cui ho lasciato ECCO Design. Sono entrato in uno studio di design quando si lavorava con matita su carta, e ne sono uscito quando senza documenti in tridimensionale il cliente non ti prendeva sul serio. Una volta, per avere una piattaforma 3D, bisognava avere molti soldi. Al momento in cui sono uscito invece, ne bastavano molti meno. Il che fondamentalmente è stata una rivoluzione enorme, perché mi ha permesso, come a moltissimi altri, di creare uno studio di design da solo, a casa, con solo un computer sul tavolo da pranzo. È stato a livello professionale una rivoluzione pazzesca, basti pensare anche solo al fatto di poter comunicare facilmente con clienti di tutto il mondo.
Sulla base dell'esperienza fatta nel design di prodotti, ho deciso di spostarmi sul mobile, che comunque è sempre stata la mia vera passione. Credo molto alla frase "Se una persona non fa nulla, non succederà nulla", nel senso che questo non è certo un settore in cui si può aspettare che accada qualcosa, o che qualcuno ti venga a chiamare.
Venendo da un modello professionale di consulenze, dove agivo con dei criteri dati dal cliente, cioè su quello che doveva essere la tipologia, il costo del prodotto, ecc., poi mi sono trovato a lavorare senza nessuno di queste regole, di questi limiti, che può essere una cosa difficile alle volte perché si può fare tutto e niente. Perciò ho sempre cercato di tenermi aperta la mente, e di applicare quello che avevo appreso in precedenza dalle tecnologie sullo sviluppo del mobile.

F. C. La cosa più divertente nel lavorare con Jeff Miller è che i suoi progetti sono più complicati da eseguire di quelli di molti altri designers con cui lavoriamo, ci sono infatti dei suoi progetti che ancora non riesco a capire. Ma quando lui dice che un oggetto può stare in piedi, ha quasi sempre ragione.
Io dico sempre di spingere le idee in cui si crede e di non aspettare molto, perché è garantito che prima o poi verrà in mente a qualcuno qualcosa di molto simile.

J. M. Shellova Sofa, che ancora non è stato realizzato, ha sia come livello di seduta che di percezione il volume di un divano, ma non la rispettiva massa e conseguente peso.
Il paravento-schermo Grainboing screens è un oggetto eseguito con un'impiallacciatura in legno su stoffa, il che gli permette di essere pieghevole e compatto, e diventa strutturale solo quando è aperto. Questa poi è un'idea che sta venendo espansa anche su tavoli ed altri prodotti.
Il prototipo Ethalamp ha preso ispirazione, a livello formale, dalla Arco di Castiglioni, perciò una fonte luminosa che arriva dall'alto e che non occupa spazio.

F. C. La cosa interessante è che la lampada Arco costa molti soldi mentre Jeff ha realizzato il suo progetto con un tubo di fibra di vetro, mentre lo schermo della lampada è in schiuma di polietilene. Usando quindi cose molto economiche.

J. M. Nel 2003 sono stato scelto e spedito in Italia dalla rivista americana Surface Magazine, come uno dei giovani designer da presentare a Milano. È stata una grande opportunità per mettersi in contatto col mondo del mobile in Italia e di presentare anche dei prototipi.
Sempre pescando dalla mia esperienza di design di prodotto industriale, un esempio che preferisco è Die-Purr Chair, disegnato per l'azienda americana Conduit Group, che scherzosamente chiamo la sedia-pannolino.

F. C. Devo dire che Die-Purr Chair è davvero sorprendente perché effettivamente è comoda e sembra proprio di sedersi su un foglio trasparente.

J. M. Nel prototipo Centerpiece Glass and Steel Table volevo che la struttura fosse molto unita con il piano, che è in vetro. La parte più interessante è il fatto che io volevo inserire tutto, o quasi, quello che si può fare al vetro. Perciò su questo tavolo le zone diverse di utilizzo sono definite da un trattamento diverso della superficie: vetro trasparente, vetro sabbiato e vetro specchiato al centro. Questo trattamento estetico-formale della superficie crea poi un punto dove va a toccare in trasparenza la base, che dà vita ad un senso di unione formale tra piano e struttura sottostante.
Il trattamento della superficie gioca anche con quella che è la gerarchia di quello che succede sul tavolo, ovverosia gli oggetti posti al centro sono specchiati ed esaltati e lo specchio centrale permette anche di avere un rapporto visivo con la persona che sta seduta davanti senza guardarsi direttamente.
Con CleaRest Bed, prodotto da E&Y, ho affrontato il particolare tema del letto mentre Six Chocolates, sempre per Conduit Group, è stato per me un dolce divagare...
Flipt, è stato presentato a Milano nel 2003, appunto in questo stand di giovani designer, che è stato un po' l'oggetto che ha fatto iniziare la collaborazione con Baleri Italia.

F. C. Quando l'ho visto la prima volta ho pensato che fosse la sedia più scomoda che ci fosse… poi mi ci sono sdraiato sopra e mi sono svegliato 2 ore dopo…

J. M. Una sedia, per quanto ben disegnata, non riesce mai ad essere ergonomica al 100% perché la vera ergonomia di seduta è il movimento, il poter cambiare posizione. Flipt è ispirata dal vivere in un appartamento a New York, dove lo spazio è poco. La chaise-longue è un po' il simbolo dell'oggetto di design ma anche il meno utile. La bellezza di questo prodotto è che occupa la metà di spazio di una comune chaise-longue perché si piega e si chiude completamente, e anche quando è chiuso ha un'identità completa da poltroncina, non c'è niente che suggerisca che sia o che deve fare un'altra cosa. Quando è aperta è assolutamente uniforme, non c'è interruzione di forma nella curva, nonostante sia anche complicata perché è una curva concentrica, cioè sono due curve che entrano una nell'altra. È molto difficile ottenere una buona ergonomia da questa configurazione di curve, perciò c'è stato quindi un grosso lavoro d'intervento sulla cinghiatura interna. Un'altra cosa interessante è che realizzandola in due colori, si può facilmente cambiare quello che è il mondo di una stanza, da quando aperta a quando è chiusa.

F. C. La cosa che volevo aggiungere è quella di fare attenzione, perché Jeff ha presentato Flipt nel 2003 come giovane designer sconosciuto. Baleri Italia l'ha preso in mano rapidamente, circa 6 mesi dopo, e quando siamo usciti con questo prodotto sul mercato, nel 2005, un'altra azienda ne aveva uno pressoché identico...

J. M. Adesso sto lavorando anche per un'azienda giapponese, Itoki, che produce soprattutto mobili da ufficio. La sedia Bucket ha un gioco formale di ripetizione dello stesso tipo di forma nella base e nella seduta.
Branch Chair, sempre per Itoki, è una sedia dove viene usata schiuma di polistirolo un po' più rigida per la seduta monoscocca e l'idea è di fare appunto una seduta estremamente ergonomica e semplice dove la base diventa struttura che la tiene insieme.

F. C. Devo dire che la prima volta che ho visto il prototipo, che non è per noi ma è progettato per un'altra azienda, è proprio un'idea semplice, elementare però estremamente elegante oltre che ergonomica. C'è una bella integrazione fra le due cose.

J. M. Wired chair, si sviluppa interamente partendo da una sezione e proiettandola nello spazio. Poi diventa un tutt'uno, non ci sono più pianta e seduta.
Per me Baleri Italia è forse il primo cliente italiano per cui lavoro su un programma così ampio. Mi rendo conto che anche l'azienda è in una fase di rilancio molto forte e molto particolare, da cui arriva, e che io ricambio, un grande entusiasmo nel nostro rapporto di lavoro.

F. C. Cosa di cui, in questo periodo, il design italiano ha molto bisogno…

J. M. Quando ho presentato il tavolo Bentz, è stata una vera sorpresa per me. Non pensavo infatti venisse accettato perché inizialmente non avevamo definito nemmeno di che materiale sarebbe stato fatto, dato che è un volume molto grande. La sorpresa è stata che abbiamo deciso di farlo in una singola fusione di alluminio a sabbia… e una pressofusione di queste dimensioni costerebbe come fare un'automobile.

F. C. La cosa interessante è che siamo riusciti a farlo. E questo è uno dei grandi pregi, per il momento, dell'industria/artigianato italiano perché riuscire a fare una fusione in alluminio di queste dimensioni non è facile.

J. M. La fattibilità di questo tavolo è stata data fondamentalmente dalla tecnologia perché ho convertito il mio schizzo iniziale in un documento tridimensionale. Dopo averlo spedito alla Baleri Italia, è stato approvato e modificato. Dopodichè lo stesso disegno esatto è stato mandato ad un prototipista da cui è stato sviluppato un prototipo in scala 1:1, che è stato usato per fare il calco finale in sabbia e poi la fusione.

F. C. Il tutto con tempi rapidissimi. E devo dire che di solito le cose fatte di getto vengono meglio di quelle sulle quali si sta molto a pensare.

J. M. Al di là della qualità scultorea della base, la cosa interessante delle curve di Bents è che da tutti e quattro i lati c'è comunque spazio per le ginocchia, perciò ha anche una funzione di accoglienza e non va ad interferire in battuta con le ginocchia di chi siede al tavolo. Ci sono varie forme, varie finiture di superficie: lucidata, verniciata, a piano quadrato, a piano tondo, ecc.
Vorrei parlare inoltre di una cosa molto interessante di questo progetto: ossia il dettaglio della giunzione piano/base.

F. C. E aggiungo che secondo me questo è un segno per riconoscere un bravo designer…

J. M. Dovendo attaccare il piano alla base, perché ovviamente il piano non può essere lasciato in appoggio perché è pericoloso, siamo partiti dalla semplice idea di mettere delle boccole di appoggio che vengono incollate al vetro. A quel punto si consegnano la base ed il piano e poi si assembla il tavolo. Il problema invece è stato che su una fusione di questo tipo, quando il prezzo si raffredda, il ritiro del metallo non è controllabile al millimetro. C'è sempre una variante minima di 2-3mm. Perciò attaccando prima le boccole di giunzione al vetro c'era il rischio che, quando poi le due parti venivano messe insieme, stessero su una base ma non su un'altra.
Sono molto entusiasta di come poi si sia risolta la cosa, perché ho fatto questo schizzo sull'aereo mentre venivo in Italia, mentre pensavo a quale potesse essere la soluzione. Sono arrivato, c'è stato un meeting, è stato mandato via il disegno ed il giorno dopo c'era il prototipo fatto da provare sul tavolo. Cosa che magari in America ci sarebbero voluti degli anni…

F. C. La sedia Clipt, devo dire che è l'oggetto che forse più di ogni altro è diventato l'emblema del rilancio dell'azienda. È assolutamente geniale ed anche estremamente bello.

J. M. La cosa interessante, e che è piaciuta molto di questa idea, era che la struttura in tondino, la slitta, si unisse alla scocca. Tutto qui.
Appena tornavo a casa iniziavo a sviluppare idee ed esempi di integrazione fra strutture e scocche, cercando sempre un motivo estetico, funzionale o strutturale. Sostengo che un oggetto può essere qualcosa, bisogna solamente permettere all'oggetto di essere quello che vuole, quasi che ci fosse comunque una volontà nell'oggetto di manifestarsi in un certo modo. Perciò l'integrazione di queste tre cose è una strada per arrivare a questo risultato.
La particolarità è che c'è un canale ottenuto nella iniezione della scocca dove si alloggia la parte superiore della struttura che, da una parte rende la struttura visibile, che completa quasi come segno grafico l'oggetto, e dall'altra è affondata in un canale perciò non interferisce ergonomicamente con la seduta. La cosa più interessante è che per tenere insieme la scocca e la base non c'è bisogno di nessuna vite di giuntura. È proprio come una grande molla/graffetta che tiene insieme le due componenti. Al di là dell'idea estetica c'è anche una funzione, che è quella di poter impilare la sedia disassemblata, fondamentale per la fornitura. L'assemblaggio richiede 4 o 5 secondi e ciò permette facilmente anche la pulizia della scocca quando necessario.
Ci sono vari colori di base e scocca che permettono di creare varie combinazioni. In tutti i casi rimane questo gioco grafico tra struttura e scocca. Nelle versioni monocolori, forse è ancora più bello perché c'è una differenza materia tra i due elementi.

F. C. Una cosa particolare di questa sedia è anche l’uso di un policarbonato molto lucido, che conferisce alla plastica una nobiltà di materia che altrimenti non avrebbe.

J. M. Lo sviluppo è sempre molto rapido, è un misto di altissima tecnologia e intuitività italiana.
Nella prima idea la scocca veniva tenuta ferma proprio come una graffetta. Però la molla non era sufficientemente forte perché in realtà la molla che tiene ferma la seduta deve avere un'escursione molto più grande ed una pressione enorme sulla seduta. Perciò abbiamo dovuto ripensare un po' il meccanismo e la molla di cui avevamo bisogno doveva sovra-stringere la scocca.
Importante è sottolineare che ogni dettaglio di questa sedia determina il suo funzionamento.
È stata una bellissima esperienza anche perché noi, quando lavoravamo insieme anni fa negli Stati Uniti, facevamo degli oggetti che venivano prodotti in 100.000 unità ma con degli stampi piccoli. Avere adesso la responsabilità di uno stampo di queste dimensioni, che costa anche una cifra enorme, ti porta proprio a sperare che vada tutto bene. Sennò sono guai…
Voglio sottolineare inoltre quella che è la bellezza del modo in cui si affrontano queste cose in Italia.

F. C. Sicuramente la situazione è difficile, molta della produzione è emigrata e sta emigrando tuttora all'estero e l'Italia ha fatto molto poco per essere competitiva. C'è da dire però che per certe capacità precise dello sviluppo del prodotto non esiste altro posto al mondo meglio di alcune zone della Toscana e della Brianza.
Perché il prototipista, lo stampista, lo stampatore, il falegname sono tutti comunque vicini e si crea un processo di sviluppo permesso dalla possibilità geografica assolutamente unico.
È una questione di comunicazione, che è molto diversa da qualsiasi Paese al mondo, in questo momento.

J. M. Riguardo i prodotti presentati sempre per Baleri Italia abbiamo la sedia Littlebig, il tavolo Bigbend, il polifunzionale Plato ed il colorato contenitore dalle mille soluzioni Obo.
Littlebig è una seduta ergonomica, nonostante abbia uno schienale più alto del normale. Questa scelta formale permette alla sedia di poter essere usata anche come appendiabiti, e di essere comodamente spostata usando lo schienale come manico. Riguardo il materiale usato, il legno, mi è stato richiesto esplicitamente dalla Baleri Italia.

F. C. Da notare che in passato il legno non veniva usato nella nostra azienda, perché era visto troppo legato alla tradizione e non ritenuto tecnologico. Però poi noi lo abbiamo reintrodotto, per una necessità di utilizzo di materia naturale, di calore, tutto sommato di una serie di valori a cui il pubblico è legato. E tramite Jeff siamo riusciti ad immetterlo con un linguaggio estremamente evoluto, che spinge molto in avanti quella che è la capacità di lavorare il legno, di piegarlo e di dargli una identità "contemporanea".

J. M. Ci siamo divertiti anche nella sua realizzazione perché all'inizio non credevano alla sua stabilità… invece ha un legame strutturale molto forte, e una flessione calibrata per sostenere fino a 200kg.
Poi veder piegare il legno con lo stampo anch'esso di legno è proprio una bella esperienza.
Anche Bigbend, come il tavolo Bentz, non ha nessun legame gerarchico della seduta e una sua caratteristica è che nel progetto si è riservata particolare attenzione per lo spazio delle ginocchia. Il suo stampo è estremamente grande, ma il risultato finale è che si ha un legame molto solido tra estetica e struttura.
Plato è interamente realizzato in marmo di Carrara, tramite lo scavo del blocco. Può essere usato come piano d'appoggio, seduta, contenitore per riviste o come oggetto scultura, perché è un pezzo nobile, visto il materiale molto caro di cui è fatto. È impilabile ed ha solo in più una striscia di feltro per la messa a terra e sul piano di appoggio. Ero affascinato dalla tecnologia usata per lavorare il marmo in azienda, perché molto lenta… infatti viene prodotto un solo oggetto al giorno.
Infine, riguardo i miei ultimi progetti segnalo Electric Can Opener ideato per Cuisinart, Clouds mirrors – specchiera sagomata a forma di nuvola con incisioni frontali decorative e fascia perimetrale trasparente prodotta dall'azienda fiorentina Facebox –, ed il lettore ed amplificatore musicale Multiplayer disegnato per la HeRD.



Jeff Miller
302 Elizabeth St., 4
New York NY 10012
Tel. 212 366 1638
www.jeffmillerdesign.com


Baleri Italia
www.baleri-italia.it
Goody
www.goody.com
Herman Miller
www.hermanmiller.com
Cuisinart
www.cuisinart.com
Virgin Electronics
www.virginelectronics.com
Surface Magazine
www.surfacemag.com
E&Y
www.eandy.com
OXO
www.oxo.com
Conduit Group
www.conduitgroup.org
Facebox
www.ccrdesign.it/facebox
Itoki
www.itoki.jp
HeRD
www.herdaudio.com


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

 ulteriori informazioni » 




a cura di:
Federica Capoduri

Rielaborazione, concordata con gli autori, dell'incontro del 23 marzo 2006 organizzato dal Corso di Laurea in Disegno Industriale
Calenzano - Firenze

Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
 IM Book 
XXVII.
XXVI.
XXV.
XXIV.
XXIII.
XXII.
XXI.
XX.
XIX.
XVIII.
XVII.
XVI.
XV.
XIV.
XIII.
XII.
XI.
X.
IX.
VIII.
VII.
VI.
V.
IV.
III.
II.
I.
 

ha collaborato:
Elena Granchi




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