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 "ARCHITETTO, MI FACCIA UN DISEGNINO"
 Dibattito tra Carlo Bartoli, Franco Dominici, Giuseppe Furlanis


Giuseppe Furlanis (Direttore ISIA Firenze)

Il rapporto tra imprenditori e progettisti non è mai stato facile, anche se il nostro paese ha segnato in questo campo esempi importanti e significativi, tanto che si potrebbe ricostruire una storia del design italiano muovendo dalla storia di imprenditori illuminati e capaci: se guardiamo le esperienze più importanti troviamo sempre dietro ad esse imprenditori intelligenti - penso a personaggi come Aurelio Zanotta, Cesare Cassina, Adriano Olivetti e molti altri.
I problemi di rapporto tra imprenditori e designer sono causati soprattutto da errori di interpretazione dei ruoli commessi da entrambe gli artefici. I primi hanno guardato troppo spesso al designer come a qualcuno in grado di fornire un'idea buona, di produrre un'invenzione e non come ad un professionista capace di affrontare il problema in chiave strategica, in maniera complessiva. I secondi, assai frequentemente, non si sono misurati con i problemi reali dell'impresa - penso ai molti, troppi, che addirittura inviano i disegni via fax. Certo il modo di lavorare dei maestri del design Nordico, Alvar Aalto, Tapio Virkaala ed altri, che in occasione della Selettiva di Cantù si piazzavano per quindici giorni nei laboratori e sperimentavano i prodotti, in una forma di collaborazione conviviale fatta anche di pane, salame e vino, può apparire un ideale romantico... ma da questo al disegno via fax...
Per creare una collaborazione efficace è necessario che l'imprenditore capisca che già scegliere il designer è un'azione di progetto, ma non solo, bisogna anche che sia capace di individuare un'area di riferimento verso la quale indirizzare la produzione - ci si può infatti rivolgere al più bravo designer del mondo, che magari fa un ottimo progetto, ma, se questo non è legato alla filosofia dell'impresa, il risultato può rivelarsi un grave insuccesso. In tal senso fondamentale risulta la conoscenza delle dinamiche sociali e di mercato.
Il progetto diventa dunque un'azione globale, legata anche alla valutazione del rischio - penso al Sacco di Zanotta, prodotto altamente innovativo ma che richiedeva un investimento minimo.
Riassumendo, si tratta dunque di concepire un rapporto tra industriali e progettisti che vada al di là del semplice terreno dell'idea, del disegno del prodotto, che da solo non consolida il rapporto né la strategia aziendale.


Franco Dominici (Imprenditore)
Ritengo che, come imprenditori, dobbiamo fare un po' di autocritica. Troppo spesso, infatti, siamo presi da problemi contingenti e non abbiamo idee chiare su dove vogliamo andare e come, commettendo così gravi errori: l'imprenditore dovrebbe invece essere in grado di dare indicazioni precise sull'identità aziendale e a livello di mercato. Spesso si rivolgono a noi giovani progettisti e, per correttezza, valutiamo sempre le loro proposte ma è estremamente difficile che possano funzionare, che abbiano l'idea giusta, proprio perché non conoscono bene le esigenze dell'impresa, non ne vivono a fondo la realtà.
Del resto i rischi che l'azienda si assume sono alti, a volte altissimi, in termini di tempo, denaro e, nel caso della Segis, di stampi, e ogni volta vanno valutati attentamente.
L'imprenditore deve essere anche un buon commerciale, deve sapere se il prezzo è competitivo e interessante o se qualcuno ha già fatto lo stesso prodotto, ma soprattutto deve avere coraggio e credere in quello che fa, deve essere sicuro delle proprie decisioni.
Un'operazione difficile, per esempio, è quella di convincere i distributori, che, spesso, sono come un muro di gomma che rimbalza ogni nuova proposta.
Alla fine tanto più è difficile il progetto, tanto più alti sono gli investimenti, tanto maggiori sono le soddisfazioni. La realizzazione di un prodotto è infatti un vero e proprio atto d'amore, e l'amore, perché sia vero, deve essere fatto in due. Così quando viaggio per il mondo ed incontro un oggetto Segis è come incontrare un figlio, provo un piacere enorme: se non ho fame entro comunque nel ristorante, o prendo un caffì in un bar, e sono orgoglioso.
Concludendo, dobbiamo convincerci, come imprenditori, che il design è un valore aggiunto di cui non è possibile fare a meno e che non dobbiamo noi stessi improvvisarci designer.


Carlo Bartoli (Architetto)
Che cos'è il design, che cos'era una volta? Quando ho cominciato a lavorare questa parola non aveva ancora un significato preciso. Oggi è possibile affermare che design non significa solo stendere delle grafie che corrispondono a concetti, ma anche realizzare intenzioni. Il designer, infatti, non è un artista ma un tecnico che ha capacitè di sintetizzare concetti.
Ricordo che quando ero ragazzino e cominciavo ad occuparmi di design in Brianza, avevo contatti con piccoli imprenditori del mobile e la richiesta che mi veniva rivolta quasi quotidianamente era: "Architetto, mi faccia un disegnino". Episodio emblematico, questo, di un certo atteggiamento assai diffuso allora nei confronti del design, che confinava il progettista in un'area di pura definizione delle forme, senza che gli venisse consentito di entrare nel vivo del progetto, come è necessario che succeda.
Era quasi sempre l'imprenditore che decideva cosa fare e il designer era chiamato semplicemente a dare forma ad un'idea già definita, c'erano solo alcuni casi particolari, come quelli di Zanuso, Albini, Magistretti, che, lavorando intorno alla forma, riuscivano ad andare più in là, a cogliere l'essenza di altre questioni e tradurle in progetti. Così è necessario che si sviluppi un dialogo incessante tra progettista ed azienda perché possano realizzarsi prodotti che abbiano una loro precisa logica.
Il compito del designer, dunque, va oggi molto al di là del semplice disegno.
Per esempio la direzione artistica, quello che io faccio per Segis, è una sorta di progetto globale non solo dell'oggetto, ma di tutto ciò che gli sta intorno, di quella che deve essere l'immagine dell'azienda, della sua comunicazione. Quando ho cominciato a lavorare per Segis, un problema che aveva l'azienda era quello dell'identità, e gradualmente il mio lavoro si è modificato per rispondere a questa esigenza. L'oggetto deve essere infatti sempre riconoscibile come proveniente da un'impresa senza doverci scrivere sotto il nome della stessa o del progettista, ma bisogna anche inserire nel progetto qualcosa che sia innovativo. È un difficile equilibrio tra due necessità opposte, ma imprescindibili: è necessario che il prodotto presenti il minimo di emergenza formale possibile, si deve raggiungere un equilibrio che tenda a riallacciarsi al passato dell'azienda, senza salti di linguaggio tali da determinare degli shock di comunicazione all'utente, senza per questo rinunciare alla necessità di dire qualcosa.
Quello che l'azienda può fare è legato anche alle possibilità tecnologiche. Nel caso di Segis, ad esempio, si trattava di creare prodotti non facilmente copiabili. Il problema delle copie è attualmente molto grave, non solo in Italia, - quando finalmente cominciamo ad essere compensati delle fatiche fatte, altri realizzano prodotti uguali ai nostri - e una delle difese possibili è proprio quella di inserire nel progetto dei paletti, delle tecnologie complesse e costose, come deterrente per le aziende che vogliono copiare.
Per quanto riguarda il rapporto tra giovani designer e aziende, Segis, come il mio studio, riceve molte richieste di collaborazione, anche quattro o cinque la settimana, che, ovviamente, non possono essere soddisfatte. Ai giovani designer suggerisco di ignorare le aziende affermate, perché hanno già un assetto ben definito e le probabilità di poter svolgere un lavoro proficuo sono inferiori a quelle delle piccole imprese che ancora non hanno i rapporti giusti con il design, magari perché non ne hanno ancora capito l'importanza. Ed è proprio in questi casi che, se la combinazione si realizza, può nascere il successo.
La strada da percorrere è dunque questa: se si è coscienti del proprio valore si deve insistere e continuare a provocare le aziende piccole, finché se ne trova una che ascolta il messaggio e nasce un inizio di collaborazione. Credo che il futuro del design italiano sia legato proprio a questa realtà. Certo non è facile, c'è da superare un muro di diffidenza del piccolo imprenditore nei confronti del designer, spesso giustificato da esperienze precedenti che si sono rivelate negative o non produttive, in molti casi proprio perché il progettista pensava in termini di "disegnino" e non di progetto globale.


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Testo:
Gloria Refini

I.
II.
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VI.
VII.
VIII.

ha collaborato:
M.Angeles Fernández Alvarez
Elena Granchi
Sonia Morini





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