Francesco Geraci, Rijeka 1943 - Firenze 2010. Profilo biografico e professionale di un maestro concertatore di aziende

   Francesco Geraci, Rijeka 1943 - Firenze 2010. Profilo biografico e professionale di un maestro concertatore di aziende

 

 IN RICORDO DI FRANCESCO GERACI

All’età di 66 anni, il primo ottobre 2010, è scomparso Francesco Geraci. Designer di vasta esperienza e rara competenza, Geraci è stato tra i soci fondatori della delegazione regionale ADI e – dal 2007 – componente dell'Osservatorio Permanente del Design ADI. Pur conoscendo da alcuni anni Francesco Geraci, di gran parte della sua attività – riferibile al secolo scorso – ho conoscenza solo indiretta tramite immagini e diapositive d’epoca. Per quanto riguarda metodo, processi, interessi e prerogative più personali del lavoro di Francesco Geraci sono perciò ricorso a testimoni della sua attività meno recenti come Mauro Pasquinelli, Carlo Bimbi e Vincenzo Missanelli ai quali va il mio ringraziamento per l’aiuto che mi hanno dato nella estensione di questo breve contributo.


Un maestro concertatore

Nella sua lunga vita professionale – quasi mezzo secolo attività – Francesco Geraci ha in particolare legato il proprio nome a quello della seduta.
Fra i suoi primi lavori troviamo, sul finire degli anni ’60, alcuni prodotti – Gefa, Asletta e Ala (quest’ultima in collaborazione con Renzo Fantoni) – che affrontano il modo essenziale e persuasivo il tema della seduta peghevole. Tale tema, a partire dalla prima presentazione della Plia di Giancarlo Piretti, avvenuta nel 1967, suscitò enormi interessi produttivi ai quali Geraci seppe rispondere egregiamente realizzando con tre diverse aziende – Elios, Husta e Lubke KG – altrettante sedute che declinavano sapientemente il gusto dell’epoca – utilizzando supporti in pelle o rivestiti in canna d’india – e altresì caratterizzate da grande performatività – come Gefa, esposta nel ’74 al Grenoble Museum in occasione della mostra S'asseoir a sei anni dalla sua prima uscita sul mercato – e notevole bellezza visiva e piacevole tattilità – come nel caso della sopra citata Ala. Su questo stesso tema Geraci ritornerà anche più tardi – ad esempio con Anta prodotta da Nuova Arredotecnica nel 1982 – con esiti sempre molto convincenti.

Gli anni ’70 e ’80 vedono Geraci attivo in diverse collaborazioni con diverse aziende come Casprini e Segis – dove è stato anche art director –, Arper, Miniforms, Picotti, Omin, Softline-All Kit, Zeritalia, riuscendo sempre a dar luogo a proposte mature e di equilibrata invenzione.
In questo periodo Francesco Geraci si ritaglia il ruolo di interprete dei temi della modernità – e delle sue icone – in un dialogo costante con la «classicità» industriale mitteleuropea.
Un tratto costante del suo «fare forma» emerge nella chiara propensione per esiti formali che privilegino l’intreccio dialogante fra sinuosa sensualità e pulizia tecnica. Un interesse peculiare che gli ha consentito di proporsi in modo convincente sia con proposte contemporanee sia con rielaborazioni di temi e tipi desunti dai secoli scorsi.
In modo non dissimile da quello che, credo, sia stato uno dei suoi modelli operativi e intellettuali – quel Philippe Starck da sempre in bilico fra rigore tecnico e «neoclassicismo» – Geraci sapeva riproporre originalmente forme del passato, così come era in grado – in base ad una familiarità con i modelli di seduta che andava ben oltre la seconda metà dell’Ottocento – di cogliere in una icona furniture ciò che ne costituiva l’esprit du temps e quel che invece – spostando l’accento sulle proporzioni, enfatizzando o attenuando corpo e pesi, variando materiali, ecc. – poteva essere considerato attendibilmente efficace nel mondo contemporaneo.

Negli ultimi due decenni, il riconoscimento delle sue doti di abile «concertatore» d’impresa portano Geraci a concentrare le proprie esperienze professionali nella quasi esclusiva collaborazione con il Gruppo IndustrieIFI – anche se non vanno taciute le più «sperimentali» e recenti collaborazioni «globalizzate» avviate, a partire dal 2008, con la polacca Nowy Styl Group e gli abboccamenti in nuce con alcune eccellenti aziende turche come Papatya.
Eleganti e robuste, in bilanciato equilibrio fra, eleganza, comfort ed ergonomia, le sedute realizzate in questo ventennio per Metalmobil, L&R e Steelmobil, sono esempio sul campo di un inesauribile talento ermeneutico del gusto del pubblico.
Nello specifico formale come in quello procedurale e produttivo questo periodo rappresenta la piena maturità di Geraci sia come autore creativo sia come rigoroso e competente tecnico di settore. Sul piano formale, si percepisce un’invariante riscontrabile in molti prodotti di questa lunga stagione: una sorta di sotteso contrasto fra linea sinuosa e profili retti, fra concavità e convessità, rigidità e morbidezza che riesce spesso a restituire un senso d’infantile immediatezza al coagulo formale raggiunto. La foggia finale si caratterizza così per franche, non occultate frizioni ed eterogeneità – sia materica che morfologica, fra curve ed angoli di scocca e supporti, tra massa frontale e profilo, fra struttura e rivestimenti. E ciò non solo per l’evidente scelta di economia progettuale – che lo portava ad evitare quasi «naturalmente» costruibilità industrialmente complesse – quanto piuttosto per la convinta interpretazione del bello contemporaneo in quanto polemos irresolubile – non privo di debiti con le geometriche curve decò.
Nervose e intimamente instabili, le sedie di Francesco Geraci condividevano il segreto di una mobilità appena rappresa, sempre sul punto di esplodere in altro, allusiva ad una molteplicità plastica non sempre colta e valorizzata dalla stampa di settore.
Un elenco fin troppo esiguo di esempi appartenenti a questo arco temporale comprende sicuramente – oltre alla poltroncina Ibis premiata nel 2005 sia al Neocon di Chicago sia all’Hospitality Design di Miami – le famiglie Aria e Net, i quasi antitetici sgabelli Ko-ala e Col, le poltroncine, Airone, Blu, Sandy – il suo più riuscito bestseller con circa un milione di esemplari venduti –, Hera, Butterfly, Florence, Talia, Syt e – ultima nata – Dafne.

Etiche quantitative

Sarebbe sbagliato – assimilandone la parabola professionale a quella di un ottimo interprete della propria epoca – limitare però il ruolo di Geraci al campo espressivo e formale. L’indubbia capacità di relazionarsi al gusto del periodo non deve infatti far dimenticare che, al di là della mera intenzione plastico-formale rivolta al prodotto, il compito che Geraci avocava per sé non era «semplicemente» quello di foggiare sedie, quanto piuttosto quello di contribuire a foggiare aziende, dando loro modo di crescere e rinsaldare relazioni economiche del territorio sul quale gravitavano. Ruolo storico che molti designer in Toscana si sono assunti responsabilmente nella seconda metà del secolo scorso e che, con l’avviarsi del terzo millennio, non sembra più così evidente e/o praticabile – stante soprattutto il progressivo volatilizzarsi del nesso territoriale tra area di produzione e azienda.
Quella praticata da Francesco Geraci è stata una «riduzione» di campo operativo – la seduta – che – almeno per un tratto – ha condiviso con molti altri designer toscani – si pensi, ad esempio, all’opera di Mauro Pasquinelli, Carlo Bimbi, Sergio Giobbi, Gianfranco Gualtierotti, Studio Archirivolto, Biagio Cisotti, Marco Maran, ecc... Scelta che ha ragioni – oltre alle ovvie propensioni e talenti di ognuno – eminentemente produttive e di mercato.
Se dunque, da un lato, l’attività di Francesco Geraci appare circoscritta ad un ambito ristretto – con qualche incursione, oltre ai tavoli, nel settore degli strumenti di esposizione e conservazione alimentare – occorre però notare che, storicamente, l’ambito produttivo della seduta è spesso coinciso con lo strategico core business di molte aziende furniture: un ambito, perciò, molto più che potenzialmente in grado d’incidere sulle «fortune» economiche del territorio.
Prodotte in migliaia di pezzi, sedie, divani, divanetti e, soprattutto, poltroncine contract, hanno costituito per decenni un must di presenza sul mercato per le aziende furniture. La loro produzione rappresentava e rappresenta a tutti gli effetti una soglia di visibilità aziendale che ha come contraltare un tasso di concorrenzialità più che doppio rispetto alle altre tipologie furniture. Sicché produrle significa essere sul mercato e, al medesimo tempo, rischiare di non esserci più. Questo anche prima della recente crisi finanziaria, ma particolarmente oggi – nonostante l’ascesa di tecniche adeguate alla piccola e media serie tenda parzialmente a bilanciare l’aumento della concorrenza sul mercato. Oggi infatti un prodotto non riuscito o non allineato al gusto attuale non rischia soltanto di vendere poco ma è piuttosto quasi certo che resterà invenduto. Una seduta sbagliata può dunque decidere della sopravvivenza o meno di un’impresa, del futuro dei suoi addetti e di un territorio.
In questo senso assumersi la responsabilità di progettarle acquisisce uno spessore etico di rilievo.

L’hortus conclusus dell’originalità plausibile

Se, dal punto di vista imprenditoriale, quello della seduta – e in particolare la seduta contract – è un campo nel quale alle aziende non sono concessi errori, dal punto di vista della progettazione, essa rappresenta un universo disciplinare ad altissimo tasso di specializzazione professionale. Un hortus conclusus non certo permeabile a chiunque lo desideri e nel quale l’imperativo a non «errare» si traduce in monito a non discostarsi troppo dalla norma prestazionale e dall’essere più che mai coerenti con quanto i briefing aziendali e le attese di consumatori assai smaliziati e competenti esigono e pretendono.
Il tutto facendo emergere in modo percepibile connotati di plausibile originalità rispetto ai prodotti concorrenti.

Nel mondo occidentale, l’universo contract è, tra gli ambiti tassonomici del prodotto, forse il più evoluto, dettagliato e competitivo. E nel dettato tassonomico si rispecchia un esplicito corpus di convenzioni che norma, misura, soppesa i comportamenti ammessi, desiderati ed auspicabili in occasione dei vari riti sociali nei quali compaia una seduta.
Non deve quindi stupire la grande forza e il ruolo quasi coercitivo che la «convenzione» svolge in questo settore.
Sia produttori che acquirenti hanno idee ben definite e strutturate delle sedute per l’attesa che intendono produrre o acquisire, così come sanno quali standard debbano rispettare le sedute per la conversazione, quelle per la ristorazione, ecc... Per quanto vasta la fenomenologia contract è perciò chiaramente «canonizzata» sia dal dettato legislativo sia da consuetudini produttive e gestionali consolidate che ne hanno normato dimensioni (altezza di seduta, di schienale, impilabilità, rapporti fra pianta e alzato, ecc.) e requisiti non solo funzionali: un universo da intendersi progettualmente con una sensibilità estesa, in grado di cogliere e rendere sia l’oggettiva usabilità sia la ritualità sociale sia le ferree dinamiche gestionali del rito stesso – una sorta triplice «natura» nelle cui direttrici operative giocano ruoli non secondari microtipologie predilette, tessuti e imbottiture privilegiate, moduli dimensionali ridotti e relazioni prossemiche molto concentrate nel tempo e nello spazio.
Operare in questo settore equivale a far derivare un «nuovo» prodotto da una fitta rete di direttive ad un tempo prestazionali, tipologiche, morfologiche e sociali. E al designer che si assume questo compito raramente (o, meglio, quasi mai) sono consentiti gesti rivoluzionari o proposte manifesto. Nel campo del contract il designer è quindi tenuto più spesso a canalizzare il proprio contributo creativo in «spazi di manovra» molto esigui, tra l’altro risolvendo sia la questione dell’efficacia sia quella estetica all’interno di un orizzonte di spesa draconiano.

Retroscena aziendali

L’attenzione costante alla grande serie, la capacità di rispondere con efficacia ai desiderata imprenditoriali, il talento sicuro nel confrontarsi con gli accorrenti temi e le richieste del mercato – non solo quelle dettate dal trend ma, anche e soprattutto, le specifiche esigenze di usabilità, performatività d’uso, stoccaggio, ecc... – ha spesso comportato il ridimensionamento del talento inventivo e delle notevoli capacità dimostrate da Geraci nel destreggiarsi su una questione tanto basilare come la plausibile resa creativa in un contesto iper-competitivo.
Un ingiusto appiattimento di queste capacità sub specie di accortezze – o, al massimo, di acume aziendalistico – è la triste sintesi che protrebbe emergere dalla lettura della stampa di settore. Tenore di giudizio che l’opera di Geraci condivideva con quella dei colleghi – ovvero la quasi totalità dei creativi operanti nel mondo del contract – i quali hanno visto oscurato dalla stampa il proprio ruolo anche perché convolti in «tormentoni» aziendali tanto specifici e complessi (1) quanto oscuri – o non addirittura alieni – ai «comunicatori» del design.

Credo di non sbagliare affermando che se esiste un lato oscuro del progetto di design questo si intersechi molto sovente col suo backstage più spiccatamente aziendale, ovvero quel teatro occulto ai più in cui pullulano problematiche operative, procedurali, organizzative, logistico-distributive, ecc. – ben conosciute da Geraci – nelle quali le occasioni di progetto attivo, lungimiranza, diagnostica prudentia ed invenzione non solo sono molteplici ma sono, attivabili, recepibili e divengono realtà di prodotto solo in præsentia dell’attore.
Di questa intelligenza corporea, di questa capacità di performance che vive e genera qualcosa solo nell’immediatezza, nella sorgività dell’incontro e della relazione fra le parti, Geraci era maestro.

Maestro non riconosciuto anche perché quel che avviene nel backstage aziendale, ovvero quel processo che va temporalmente dal prototipo «di progetto», al prodotto è essenzialmente segreto, cacofonico e plurideciso. E occorrono particolari abilità sia tattiche che strategiche per capire, nel continuo emergere di opzioni attuative promosse dai vari soggetti coinvolti, quando sia più opportuno scegliere – avendone l’autorevolezza – di dirigere e convincere gli altri attori delle proprie idee e quando invece – avendone l’umiltà – di cogliere, nei suggerimenti emersi, spunti proficui alla riconsiderazione – e revoca in dubbio – di alcuni dati certi. Non di rado arrivando a soluzioni ottimali sulla base di esperienze e saperi che solo in parte si condividono.
Come più sopra accennato, la plausibilità di un prodotto rivolto ad un mercato estremamente competitivo impone al progettista di rinunciare ad idee anche formalmente pregevoli che non si dimostrino – sulla carta o man mano che si procede nella definizione del progetto – facilmente realizzabili. La filiera di costruzione del prodotto, predilige poche definite scansioni per arrivare al finito, occorre perciò, inventare e sperimentare soluzioni «povere», applicare intelligenti escamotage. E talvolta rinunciare, avvedendonsi in anticipo dei limiti di costruibilità delle varie opzioni, prima di mettere a rischio l’intera produzione.

In altri termini l’ideazione, la progettazione e la ricerca solutiva ottimale per il «nuovo» prodotto costuiscono una sorta di ping pong intellettuale che, senza quasi soluzione di continuità, impegna il designer a dar prova di talento connettivo, sapienza espressiva e competenze ingegneristiche. E questo a maggior ragione oggi stante il progressivo processo di terziarizzazione delle aziende furniture che – col ricorso sempre più massiccio all’outsourcing e la pericolosa sopravvalutazione della comunicazione – ha ridotto drasticamente le competenze interne all’impresa caricando di responsabilità lo stesso designer. Designer che – sovrapponendo in proprio competenze e tempistiche – è conseguentemente tenuto, nell’elaborazione del progetto, ad anticipare con la dovuta approssimazione i rischi insiti nell’ingegnerizzazione del prodotto, molto spesso evitandone l’insorgere in quella fase che mantiene comunque una sua specifica imponderabilità.

L’evidente opacità di questo tratto nell’attuale resa mediatica del progetto furniture costituisce nocumento non solo per una giusta focalizzazione del lavoro svolto da Geraci in questi anni ma, più in generale, arreca un danno proprio alla sovente millantata sfaccettatura professionale e all’inventività in genere. Mi sembra evidente che lasciando in ombra proprio questo particolare momento operativo – e, anzi, quasi sottacendone l’esistenza – la stessa percezione della figura professionale del designer – ricalcando limiti conoscitivi di chi scrive di design – finisca man mano con lo spogliarsi di una vitale e multiforme specificità. Ovvero di quel tasso di «mestiere» o, se si vuole, di «militanza operativa» – ovvero di «intelligenza pratica» – nella quale sono ricomprese non tanto le «alzate d’ingegno» emerse nel privato dello studio professionale quanto piuttosto le idee e suggerimenti raccolti nelle occasioni di prossimità con l’altro che la vita produttiva di continuo concede. Occasioni che Francesco Geraci era in grado di cogliere appieno. Vuoi chiaccherando sul treno per Colonia, Milano, Rimini, Verona o Pordenone, vuoi incamminandosi verso gli stand, dialogando e discutendo negli atelier dei modellisti, negli uffici e nelle officine dei sub-fornitori – le cui competenze, come insegna Laura Lucia Parolin (2), sono essenziali nel «processo di stabilizzazione degli artefatti». E tutto ciò, facendosi guidare nelle diverse situazioni, da un mix d’intuito ed esperienza solo parzialmente razionalizzabile: un savoir-faire in cui un ruolo non secondario aveva sia l’olio di gomito – e l’abbondanza di suole – sia l’acquisita padronanza sul campo di tecniche risolutive circoscritte, ma non per questo esclusive, a determinati ambiti produttivi.

Modus operandi

L’attività di Geraci è stata anche esemplare di una bivalente modalità di relazione con l’impresa e gli altri attori implicati nella prototipazione e nell’ingegnerizzazione del prodotto che lo vedeva operare sia «in prima persona» – tramite l’ideazione progettuale, il disegno e l’attivazione di contatti diretti con committenze e collaboratori – sia nella in forma «mediata» – ovvero, come accennato a proposito del backstage aziendale, attivando e «gestendo» competenze altrui secondo le finalità ultime di realizzatore di prodotti per il mercato.
Una rete di relazioni complessa – per competenze e doti personali implicate – che per oltre quarant’anni gli ha consentito di affrontare opportunamente le problematiche economiche e sociali di quel mestiere specifico che è il «fare sedie» e che oggi vale forse la pena di tracciare anche se molto sommariamente. Un breve schema riassuntivo delle cinque azioni – o pratiche – principali nelle quali può essere scandito il modus operandi che Francesco Geraci era solito utilizzare per realizzare i suoi progetti è il seguente:

  • Disegno analogico bidimensionale
    L’elaborazione progettuale, cercando di ottemperare alle richieste dei briefing aziendali, le traduce in forma e proporzioni attraverso l’utilizzo del disegno – prima schizzato a mano e quindi al tecnigrafo. Talvolta l’indagine grafica, costituiva un tale approfondimento e ricerca di confidenza tattile ed approssimata per Geraci da condurlo a realizzare dei veri e propri «ritratti al vero» in scala 1:1 del prodotto finale;

  • Traduzione tridimensionale digitale
    La conversione dei tracciati manuali nelle cosiddette «matematiche» – termine prediletto da Geraci per le digitalizzazioni in 3D – sovente realizzate a Udine e – più recentemente – a Firenze. In questo caso i controlli e le modifiche – feedback retroattivi – periodiche apportate alla versione 3D si determinavano sia a partire da verifiche della resa cartacea – in absentia – sia tramite la visualizzazione sul computer del collaboratore – in præsentia. In entrambi i casi la capacità di Geraci di descrivere la «natura» del prodotto finale si rivelava essenziale all’elaboratore per effettuare le modifiche richieste. A questa fase dell’iter di definizione del progetto, Geraci non attribuiva una particolare rilevanza progettuale, tuttavia si rendeva perfettamente conto che anche in questa fase strumentale l’intensità della «supplenza» verbale (3) alla traccia disegnata avrebbe molto favorito l’interprete nella «traduzione» delle intenzioni spaziali di progetto;

  • Prototipo tridimensionale
    Tramite la versione digitale, il designer si accollava l’onere della realizzazione del prototipo. Quest’ultimo quasi sempre veniva realizzato in Toscana presso la Modelleria Ferrieri di Poggibonsi – azienda probabilmente da includere in un ristretto parco di eccellenze imprenditoriali toscane – con la quale, tra l’altro, Geraci condivideva proprietà di brevetti. La consuetudine delle frequentazioni, il ristretto ambito operativo, la vasta esperienza di entrambi i poli della relazione aveva reso questa fase una delle più silenziose e reciprocamente attente: una partita fra pari che, pur determinando il futuro del nuovo prodotto, accadeva con la naturalezza di una consolidata prassi abituale;

  • Saggio del prototipo
    L’efficacia operativa del prodotto «al vero» veniva certificata presso il CATAS di Udine. E’ la cartina al tornasole di come, per Geraci, il positivismo scientifico sia alla radice del senso della pratica del design: un prodotto onesto deve necessariamente avere una prospettiva di durata non ineffabile. Ma è anche, come nasconderlo, la messa in chiaro di un punto fermo, a sancire che il processo «endogeno» fin qui svolto non palesa sofferenze o criticità tecniche. Quasi un attestato di buona salute del nascituro subito prima del taglio del cordone ombelicale;

  • Backstage aziendale
    Confrontandosi con imprenditore e sub-fornitori veniva vagliata la realizzabilità a costi contenuti del prototipo «di progetto». In questa fase – come acutamente descritto da Laura Lucia Parolin (4) – il prototipo|prodotto si «apre» – ovvero viene messo in discussione – e si «chiude» – ovvero si stabilizza temporaneamente come oggetto completo – più volte. Anche in questo caso pur escludendo l’intervento diretto del designer – tramite il disegno di nuovi particolari costruttivi, schizzi sul posto, ecc. – l’attività del progettista è più frequentemente concentrata nella gestione di attività altrui, al fine di favorire la conclusione della fase «apri e chiudi» nel più breve tempo possibile senza incidere negativamente sull’esito finale. Come detto anche se è prevedibile che esistano consistenti ambiti temporali nei quali il designer si trovi a svolgere un ruolo parzialmente notarile di quanto man mano accade nelle diverse sedi proprie di azienda e sub-fornitori, nondimeno esperienza, competenza e intuito sono le doti tatticamente e stategicamente efficaci che il progettista ha a disposizione per improntare in ogni step del percorso il prodotto definitivo. Ciò, evidentemente, se si è in grado di garantire non tanto la banale presenza di supporto alle varie fasi, quanto piuttosto la capacità d’incidere sul processo di defininizione del prodotto tramite la riconosciuta autorevolezza di una leadership che oltre a «saper fare» dimostri tangibilmente ogni giorno di sapere prevedere, proporre e ascoltare: ovvero saper «immaginare», «raccontare», «curiosare» e «sorprendersi».

  • In un iter piuttosto nomade che triangolava la sede del proprio studio con i luoghi della verifica (costruibilità, resistenza, economia) del prodotto, il lavoro del «progettista di sedute» si esplicava così per Geraci sia nelle accortezze preventive profuse nel progetto e nel prototipo – in quanto spesso i problemi di ingegnerizzazione del prodotto erano parzialmente affrontati escludendo «scorciatoie» costruttive troppo artigianali – sia nel talento strategico-gestionale della fase conclusiva di produzione – che riusciva a garantire all’azienda il vantaggio competitivo di ottimi rapporti qualità/prezzo.

    L’indigenza silenziosa del cogito

    In quest’ultimo assillante imperativo alla riduzione del «costo» finale del prodotto – sia per Geraci che per la più parte degli autori toscani sopra citati – sta una consapevole accettazione – ma anche una scelta di campo – che, sotto il profilo puramente mediatico, si è rilevata «autolesionista». Appare infatti in tutta evidenza che per il circuito della comunicazione del design system Francesco Geraci in questo ventennio ha letteralmente «prodotto silenzio».
    Non solo non ha minimamente contribuito al linguaggio plastico di un’area produttiva importante, ma nemmeno ha sostenuto le imprese con le quali ha operato, poiché Geraci ha commesso un errore capitale per la cultura del progetto che si propala sulle riviste: non concependo l’industrial design come promozione di sé non creava oggetti d’éclat e, conseguentemente, non ha mai realizzato prodotti virtualmente «da copertina» bensì prodotti realmente da negozio, ristorante, albergo, ecc...
    La morale parzialmente consolante che possiamo trarre da tutto ciò è però che se Geraci ha prodotto silenzio in questi anni, il suo è stato certamente un silenzio quantitativamente sostanzioso, qualitativamente sincero e assai più prossimo al nostro «pubblico» e «stra-ordinario» quotidiano – quello intendo fatto di attese dal medico o dall’avvocato, di scampagnate fuori porta, di gite al mare, di cene al ristorante per gli anniversari e i compleanni, ecc. – di quanto non lo siano mai state le sedute|scultura di Fabio Novembre, Ron Arad, Gaetano Pesce, ecc...

    Onorare oggi l’attività di Francesco Geraci significa dunque rivendicare dignità, valore e riconoscimento per chi al dapprima strisciante, ed oggi sempre più eclatante decorativismo, ha sempre opposto quella che – riprendendo un’acuta formula di Sergio Benvenuto – potremmo chiamare l’indigenza del cogito. Una cartesiana misura che è l’espressione di un metodo, di un rigore tecnico e teorico che ha profonde radici in una quasi ottocentesca fiducia nel progresso e nella capacità di durata e di presa nei confronti del pubblico del gusto classico – ovvero neo-classico in senso ottocentesco. Un metodo nei cui risultati mi sembra sia ancora possibile rinvenire l’ordito di una weltanschauung – «in minore» magari, ma – assolutamente coglibile, istruttiva e trasmissibile anche in questi anni globalizzati.

    Istriano di nascita – era nato a Rijeka nel 1943 – e toscano d’elezione, Geraci col suo design ha inteso costantemente far dialogare l’attualità con la storia ma, soprattutto – intrecciando la maniera e i dettami del pionierismo industrialista con un’immanente utopia umanistica di sapore «risorgimentale» – ha cercato di cimentarsi nel «riscatto» delle richieste del mercato proprio attraverso il filtro delle speranze progettuali espresse da quella cultura che, fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del ‘900 – pur con le ovvie contraddizioni e limiti –, ha avuto un ruolo realmente fondantivo per il design.
    Solo da un tale intenso crogiuolo di senso poteva alimentarsi la «fede» nel progetto infinito che permeava l’attivismo senza sosta di Francesco Geraci. Albergava in lui una convinzione quasi incrollabile di poter migliorare in ogni momento il progetto al quale stava lavorando; una profonda persuasione che, all’occorrenza, lo conduceva instancabilmente a limare la frase di presentazione del prodotto, riconsiderare un dettaglio, ridiscutere con lena inesauribile di finiture, colori, sezioni, materiali...
    E forse non è improprio ravvisare in uno dei suoi prodotti più fortunati di – la seduta Sandy – anche il nostalgico afflato nei confronti di un mondo che, pur quasi irrimediabilmente perduto, manteneva intatta la capacità di orizzontare ancora la sua ricerca progettuale. Come per molti altri prodotti di Geraci, in Sandy non solo si respira la celebrazione contemporanea di un riconosciuto modello del passato – la Thonet 14, trasfigurata nella plastica e metallo della liturgia contract –, ma mi pare di avvertire dietro questo progetto «d’occasione» pure la deliberata rievocazione di uno spirito fiduciosamente rivolto all’avvenire: lo spirito di un’epoca nella quale con buone idee e molto coraggio imprenditoriale era possibile produrre sedie in oltre «50 milioni di pezzi al costo equivalente a quello di tre dozzine di uova».

    Anonimo istriano

    Sia come uomo che come professionista Geraci era profondamente convinto dei valori positivi ed «etici» insiti nella tecnica e nella serialità. E come molti altri iscritti ADI toscani, non solo è stato un convinto estimatore della grande serie, ma, al pari di Vico Magistretti – anche se più privatamente –, un acuto e fermo critico tanto della piccola serie quanto della produzione di lusso – che pure, soprattutto nella nostra regione, ha un indiscutibile ruolo culturale e occupazionale.

    Progettista «altamente specializzato», Francesco Geraci, non ha mai ritenuto d’essere un designer di «nicchia», né di poter associare il proprio nome ai temi e alle espressioni del lusso. E questo non tanto per snobismo culturale, quanto piuttosto per una propensione quasi «antropologica» che lo portava a leggere nella sopravvivenza di specie un valore se non superiore almeno pari a quello del singolo. Geraci riteneva il proprio talento come inscritto in una catena «biologica» più ampia, considerandosi cioè risorsa solo in quanto al servizio di altri, tessera di un quadro più ampio – non solo un’azienda, ma, soprattutto, una società – le cui logiche e urgenze sono forse più cogenti di quelle personali.
    In tale concezione sistemica il fallimento personale di un’utopia – la sua raggiungibilità asintotica essendo più pertinenza al «noi» cui tutti si appartiene – rivela un risvolto utilmente operativo anche per l’oggi, erodendo luce e valore al solipsismo egotico, deprimendo il protagonismo dell’«io» in favore del lavoro d’equipe.

    Per chi, come Geraci, abbia inteso assumersene responsabilità non solo derivate, il connubio fra quantità e basso costo – oggi sommariamente rinvenibile nei prodotti IKEA – ha quasi sempre comportato, un’implicita opzione di anonimato – più o meno casuale o ricercato – appena controbilanciato dall’arricchimento della speranza comune.
    Vivendo oscuramente la creatività – vuoi trattenendo il progetto nell’ambito della semplicità costruttiva in grandi quantità, vuoi non proponendosi apertamente come stilista di oggetti – la depressione dell’«io» del progettista anonimo contribuisce ad un successo complessivo che determina un vantaggio forse più modesto per chi ne beneficia, ma sicuramente per un numero infinitamente superiore di persone.
    E’ in questa enigmatica equazione psico-sociale che dobbiamo, credo, collocare la parabola progettuale di Francesco Geraci per il quale – occorre forse ribadirlo – è valso ciò che vale per quasi tutti coloro che abbiano avuto un imprinting nell’immediato dopoguerra; ovvero quando la speranza progettuale – ben al di là di un’urgenza di per sé assertiva – era avvertita come un cogente processo di «ricostruzione» per tutti. Analogo agli atti reali che dovevano rispondere alla questione rappresentata dal paesaggio urbano di macerie peculiare dell’Italia di allora, il progetto in quegli anni non poteva essere altrimenti definibile che un atto partecipe, corresponsabilmente teso a migliorare il benessere di tutti.

    Tempo fa mi fu chiesto di pensare ad un format comunicativo per rendere più presente, nel sentire della città di Firenze e della regione, il ruolo e il senso della delegazione locale ADI. Quasi subito ho pensato – anche sulla scorta mnemonica di un titolo «scandaloso» come la Tafelmusik di Georg Philipp Telemann – alla possibilità di realizzare un ciclo dal titolo Progetti d’occasione: una serie d’incontri dedicata ad associati impegnati a descrivere alcuni loro prodotti realizzati con aziende toscane e non. Il senso più segreto di questo progetto era racchiuso in un piccolo brano estratto dall’introduzione al volume Scritti servili dello scrittore e critico letterario viareggino Cesare Garboli e che – traslitterandolo dal tema della critica letteraria a quello del disegno industriale – avrebbe recitato come segue: «Non progetti “contro” ma “per”. D’occasione vale dunque: servizi resi ad una committenza, progetti promossi da una occasione pratica, da una finalità produttiva. Perché questi autori oltre che progettisti-utenti si sentono anche progettisti-produttori»(5).

    In questo coacervo testuale mi sembrava si condensasse assai bene il senso di un gruppo professionale che – pur con minime tangenze sia con l’esperienza Radical che con quella Bolidista – aveva operato in Toscana per molti anni senza aver avuto riscontri reali con controparti diverse da quelle imprenditoriali. Ovviamente fra questi era compreso anche Francesco Geraci e la sua «utopia» ben temperata dal costo; il suo universo pubblico di tafelmöbel in cui non ha mai cessato di credere e per il quale ha incessantemente cercato di scoprire nuove frontiere.
    Un impegno, s’è detto, oscuro, ma anche gravoso fisicamente perché sia presenziare in prima persona alla performance del backstage aziendale, sia il costante scandaglio di nuovi eventi ed occasioni di mercato, richiede grandi energie.
    Un impegno fisico forse fin troppo pesante per chi non amava delegare alcuna pratica inerente il progetto, ma ch’eppure Geraci sembrava sopportare benissimo. Almeno fino agli ultimi mesi della sua operosissima vita.

    Sornione e affabilmente vago questo designer monumentale e dinoccolato possedeva, tra l’altro, un talento innato per agire sul terreno mobile e imprevedibile delle fiere. Disponeva delle necessarie competenze e capacità tecniche, intellettuali e dialettiche per approcciare chiunque – e, insospettabilmente, al di là di ogni barriera linguistica – essendo in grado di coinvolgere chiunque in pochi minuti. E certo com’era che – ben oltre il Salone del Mobile – le occasioni propizie per individuare nuovi spazi di intervento fossero gli eventi emergenti piuttosto che quelli consolidati, fino agli ultimi mesi della sua, purtroppo, breve vita ha partecipato e progettava di partecipare a numerosissime occasioni fieristiche e promozionali in tutto il mondo – come ad esempo in Polonia e Turchia, paesi nei quali aveva attivato le sue collaborazioni più recenti. Riuscendo sempre a ritenere moltissimo da ogni evento per quella quasi proverbiale capacità di concentrazione e disamina settoriale che si era da tempo imposto come regola fruitiva nelle manifestazioni di settore.

    Una notevole capacità di lettura dello status quo, unita ad una ragguardevole competenza storica, intuito tattico, propensione strategica e umiltà professionale, illuminava e direzionava Francesco nella ricerca di «novità» accessibili e competitive nel campo della seduta. Ora che quel tragitto si è in qualche modo compiuto, possiamo sentire in modo più profondo e vero come a quella luce avessimo sempre alimentato la nostra ombra, come la sua presenza contribuisse a dar rilievo alle nostre stesse idee e pensieri sul progetto e sul prodotto. E possiamo altresì sentire quanto ci manchi quella luce a cui la nostra ombra poteva sempre ricorrere. Fino ad ora.



    (1) Un esempio per tutti il coordinamento del tema dell’impilabilità (che richiede un’enfasi posteriore del prodotto) con la performance prossemica del servizio al tavolo (che richiede la minima lateralizzazione dei piedi posteriori della sedia rispetto all’area occupata dalla seduta). Coordinamento che ha nell’impilabilità ruotata una tecnica solutiva.
    (2) Laura Lucia Parolin, Sulla produzione materiale. Qualità sensibili e sapere pratico nel processo di stabilizzazione degli artefatti, in «Tecnoscienza - Italian Journal of Science & Technology Studies», Volume 1(1) pp. 39-56 (www.tecnoscienza.net), 2010.
    (3) Anche sulla consistenza del ruolo della parola all’interno del processo di definizione nel corso della fase qui definita come backstage aziendale rimando alla lettura del notevole saggio di Laura Lucia Parolin, Op.cit.
    (4) Laura Lucia Parolin, Op.cit.
    (5) Il testo originale – di cui, per giustizia e interesse, cito l'intero capoverso – era il seguente: «Non so per quale ragione ho dato a queste storie di seduzione il titolo, tacitamente disapprovato dagli editori, di Scritti servili. Una certa suggestione l'ha prodotta, sicuramente, il gusto di provocare. Il nostro tempo ha sancito l'esilio di ogni forma di dipendenza del simile dal simile; e sia, ho votato anch'io l'ostracismo. Ma, non so perché, non mi dispiace che un raggio dell'antica servitù tramontata venga a raccogliersi, e a conservarsi, nelle mie pagine. Gli editori avrebbero preferito dare alla raccolta una connotazione più polemica, intitolandola "Contro-Novecento". Ma io non scrivo "contro", scrivo "per". Il titolo originario di queste prefazioni era "scritti funzionali", più equivoco ancora, per le sue implicazioni teoriche, di scritti servili (non c'è niente che non diventi, nel nostro secolo, una corrente di pensiero). "Servili" vale dunque: servizi resi a una committenza, scritti promossi da una servitù pratica, da una finalità editoriale. Oltre che scrittore-lettore, mi sento anche scrittore-editore. Ci sono molti editori (e la nostra lingua ne annovera a fiumi) che finiscono, prima o poi, per diventare scrittori, mentre a me succede il contrario (non so scrivere senza inseguire una professione, o una vocazione, fallita)».


    Francesco Geraci, Rijeka 1943 - Firenze 2010. Profilo biografico e professionale di un maestro concertatore di aziendeFrancesco Geraci
    Nato a Rijeka nel 1943, dal 1968 ha operato come Interior e Industrial designer per alcune delle maggiori aziende italiane ed estere raggiungendo notevoli affermazioni sia in campo nazionale che all'estero. Ha inoltre partecipato a importanti mostre e competizioni anche internazionali. Tra i progetti, segnalazioni e premi si ricordano: 1974 sedia pieghevole Gefa esposta al Grenoble Museum in occasione della mostra S'asseoir; 2005 sedia Ibis, selezionata e premiata al Neocon di Chicago; 2005 sedia Ibis, premiata all’Hospitality Design di Miami. Tra le aziende con cui ha collaborato si segnalano: Lubke Kg, Husta, Arper, Zeritalia, Segis, Picotti, Miniforms, Softline-All Kit, Casprini, Gruppo IFI, Metalmobilarredo, L&R, Nowy Styl Group.




    a cura di: 
    Umberto Rovelli 

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