Considerando l’animo con cui affrontiamo le fiere
dedicate al design, dovremmo ammettere che la ragione intima per la quale siamo
spinti verso la novità risieda nella disgregazione dello
status quo. Una
condizione a ben vedere paradossale in quanto all’euforia per il «nuovo»
corrisponde una dissipazione che, giorno dopo giorno, logora buona parte del
nostro patrimonio comune, di quel
tessuto connettivo intergenerazionale
sul quale nonni e nipoti possono ancora parlarsi. A conti fatti, dunque,
visitare con quest’ottica le fiere equivale a focalizzarsi in un modo
ingenuamente positivista su quanto ci differenzia dal passato dimenticando che
il valore di quel differire sta anche nel residuo, ormai molto marginale, di
quel che ci unisce.
Non sono mancate in Toscana figure esemplarmente votate a leggere nel contemporaneo una simultanea convergenza fra trame emergenti e orditure consolidate. Ad esempio Leonardo Savioli che «con la sua architettura [...] voleva "registrare l'esistenza". Voleva "toccare lo spazio" prima di poterlo rappresentare e poi costruire; per lui tutto era relazionato agli "altri", da comprendere e da amare; non occorreva "inventare per forza", ma raccogliere "l'eredità delle cose che sono sempre esistite". Ecco perché il fine dell'architettura era sempre la città»
00 . Ma, a partire dagli anni '80, tale bifida tensione ha forse cominciato a vacillare. Perdendo aedi di rilievo – in grado cioè di propalare il gusto, il sapore e la sapienza di cortocircuitanti prospettive crono-topologiche – si sono poste di fatto le condizioni affinché oggi si determinasse una separazione sempre più netta fra le nozioni di «classico» e di «tendenza».
Tale fenomeno negli ultimi anni s’è accelerato al
punto che il portato peculiare dei prodotti
evergreen viene oggi
percepito quasi come un controvalore
01 .
Eppure, se dovessimo decidere cosa ci identifica maggiormente rispetto ad altri
popoli dovremmo ammettere che se esiste un
quid distintivo esso risiede
proprio in
quel che ci lega attraverso le generazioni, ovvero proprio
ciò che costituisce, come detto, un
terreno psico-materiale condiviso
fra noi e i nostri nipoti. Ovvero quanto resta di invariato tra le diverse
generazioni viventi.
Questo complesso identitario, che nel crescente
fenomeno
vintage ha un chiaro sintomo
02 ,
è stato ben interpretato da alcuni lungimiranti designer e imprenditori che – ad
esempio trasformando le icone «nostalgiche» del più o meno recente passato in
leve
progressive 03 – hanno
talvolta realizzato
produzioni d’élite connotate da avvincenti
enjambement simbolici proprio in quanto contese fra territori del sorgivo e
del
déjà vu.
Fra loro una menzione speciale merita Giuliano Mazzuoli, divenuto in questi anni un
audace e fortunato interprete e «rivisitatore» del progetto laboratoriale «anonimo» del secolo scorso.
Senza retorica, quella di Mazzuoli è una storia
creativa e produttiva che profuma di «mito» ed è in grado di rivaleggiare sia
con analoghe vicende pre-rinascimentali e del
made in Italy peculiari
degli anni ‘60-’70. Occorre infatti riconoscere che con l’attività ormai ultra
ventennale di Mazzuoli siamo di fronte ad opere di altissimo genio
imprenditoriale. Lavori in grado di connettere tecnica e talento inventivo,
capaci cioè di portare sul mercato prodotti di una tale «potenza» comunicativa
da garantirgli sia
partner prestigiosi come il Museum of Modern Art
(MoMA), Fiat, Alfa Romeo sia
fan e
testimonial d’eccezione quali
Paul Newman, Roberto Baggio, Renato Zero, Roberto Cavalli, Justin Bieber,
Matteo Renzi, Lapo Elkann (
honi
soit qui mal y pense), ecc.
Dal 1953 l’azienda paterna ha prodotto blocchi e rubriche destinati ai
pellettieri fiorentini, ma la svolta produttiva risale ai primi anni ‘90,
quando cioè Giuliano Mazzuoli viene a conoscenza di un sistema di rilegatura
tipico del ‘700 e decide di riprodurne il requisito di «rigidità flessibile»
con tecniche attuali. Ma il nome creato per la linea di agende e blocchi –
Stifflexible – individua la caratteristica epidermicamente più rilevante di un prodotto
che comunque è
originale 04
proprio in quanto propone una
rilettura contemporaneamente credibile e
attenta della tradizione. Non solo. Mazzuoli è sia abile nel concepire l'oggi rivisitando il passato che accorto e prudente nell'intuire i possibili futuri di quello stesso
presente rivisitato. Non si adagia quindi sul primo aspetto
innovativo individuato, e più che a «spremere» l’idea originaria sembra
interessato ad «alimentarne» i sensi, moltiplicarne gli effetti, intrecciandoli
ulteriormente in
complexio.
In particolare, ogni suggestione raccolta viene «tematizzata», ovvero
elaborata,
esaltando le interconnessioni sussistenti e attuabili fra gli ambiti condivisi
della «praticità» e quelli – a torto considerati inconciliabili –, dello stile
«individuale». In breve le
Stifflexible si dotano di sezioni
volta-pagina riservate a idee ed appunti, alcune edizioni si
caratterizzano per la rigatura delle pagine ondulate e inclinate, infine per le
tasche porta biglietti da visita con funzione di segnalibro. Proprietà
peculiari, sature insieme di senso storico, funzionale e
specificamente esclusivo, dove cioè quel che le
distingue si alimenta ed abbevera in un "presso", in un comune intorno. Dove la
distinzione non si declina né con la solitudine né col distacco da un
humus condiviso, quanto piuttosto con l'
appartenenza ad un contesto valoriale più ampio e convissuto.
Proprietà la cui emersione e adozione può essere addebitata a capacità ed
attenzioni
consapevolmente «toscane», visto che le matrici di questo
talento a reperire nuovi sensi nel
traditum si possono far risalire a
quell’«empirismo guicciadiniano» in cui Alberto Asor Rosa ha voluto cogliere le
radici del «problematicismo esistenziale e conoscitivo»
05 .
Ovvero quell’«atteggiamento mentale, posizione percettiva che si fa taglio
interpretativo, ermeneutica»
06
che ha come vettore primario la «discrezione» (la «scettica
e disincantata capacità di osservare la mutevolezza delle situazioni e di
adattarsi a esse»
07 ) e, come «naturale»
approdo, il «particulare» – da intendersi a sua volta «non come
volgare ricerca di beni economici, ma come realizzazione piena della propria
personalità»
08 .
In proposito, Curzio Malaparte nota come quel che salvava anche la povera gente
di questo territorio fosse «sopra tutto quel
senso casalingo della storia,
per il quale il “particulare”» si sentiva «al riparo da ogni universale
rivolgimento, da ogni pericolo di natura pubblica, come d’ordinario si sente
chi sta in casa propria. La Toscana (...) era l’unico paese al mondo che fosse
una “casa”», al punto che gli stessi invasori venivano «guardati dal
“particulare” toscano quali miserabili senza tetto»
09 .
Poco più avanti, senza stabilire un nesso diretto fra tale «domesticità» e il
tratto umanistico
10
dell’«agire» toscano, Malaparte si sofferma comunque a dissertare sulla «virtù»
– anch’essa tutta toscana – «di far le cose a modo, a miccino, senza perdere il
senso delle misure e delle proporzioni umane, l’arte di far le cose grandi col
senso della piccolezza dell’uomo, e le piccole e umili col senso della
grandezza umana»
11 . E, un poco
oltre, invita chiunque desideri «persuadersi di questa greca virtù dei toscani
(...) e cioè del senso della misura» a guardarsi «la pittura senese e
fiorentina, dove le architetture son così fatte, che un uomo a cavallo empie
tutta la contrada, e sopravanza del capo il tetto più alto, e le montagne son
più piccole degli alberi, e gli uomini sembrano bambini a petto delle viti,
degli olivi, delle ginestre, e di quell’uccellino che canta lassù, fra i rami
di quel cipresso: che non è per difetto di prospettiva, ma per antipatia di
ogni magniloquenza»
12 .
Perché, prosegue Malaparte, «l’uomo, se lo guardi da vicino, (che è il modo di
guardare dei toscani), è un animale piccolo, e ha bisogno di vivere, per
sentirsi uomo, in mezzo a cose fatte a misura sua»
13 .
La Toscana è pertanto il luogo (la «casa») dove, più
che altrove, una peculiare attitudine alla prossimità tra uomini e cose, ha
consentito e consente il compiersi frequente di laiche
unio mystica tra
idee, materie e corpi viventi. Ciò riguarda il territorio, l’architettura come,
peraltro, gli artefatti ma, in modo particolare,
riguarda gli «oggetti
per la persona». E fra quei
misurati campioni, che per «connaturata antipatia di ogni
magniloquenza» sanno trasporre un senso casalingo e pratico al «fatto ad arte», vanno
sicuramente annoverate le
Stifflexible. Prodotti nel cui «ortodosso
alternativismo»
14 traspare
proprio la sapidità di quel connubio, cui si accennava, fra schietto individualismo
e altrettanto sincero trasporto per l’assai più «corale» praticità e che,
non casualmente, vantano nel 2013 col MoMA la loro undicesima edizione
personalizzata 15 .
Ma il successo della 3.6.5. di Giuliano Mazzuoli è
soltanto preludio alla successiva predisposizione prima della linea
Officina
e, quindi, della linea
Mini Officina in cui il designer|imprenditore
toscano dedica la propria «discrezione» alla ideazione e produzione di
«strumenti per la scrittura» caratterizzati, come detto, dal richiamo ad
attrezzi meccanici e, più in generale agli ambienti lavorativi conosciuti
nell’infanzia dall’autore. Mazzuoli li chiama «utensili per la scrittura», e vi
infonde tutte le emozioni vissute nell’officina del nonno Renato che con frese
e torni costruiva artigianalmente biciclette.
Con
Moka e
Mokina la fonte di
ispirazione è invece un simbolo dell’
italian style con cui tutti abbiamo
avuto a che fare nella nostra vita. Ed è, quindi, una delle più durevoli icone|simbolo della
civiltà italiana, protagonista principe del rito sociale quotidiano del caffè,
a divenire pretesto figurativo per una penna sfera e un
roller di
successo. Si potrebbe proseguire, ma la regola, l’
invariante di questo
gioco volto a offrire un mercato per «cose fatte a misura d’uomo» è che la
sorpresa
sprigionata dallo «scarto semantico» nell’oggetto possa essere accolta come
naturale o, perlomeno, come non fittizia. La scommessa su specifiche e
accertate capacità di
non ricusazione da parte dell’oggetto è alla base
di un gioco in cui lo scarto innovativo, per essere «resistente», è tenuto ad
esibire altrettanto consistenti assonanze ortodosse (o conformistiche) rispetto
al quadro tematico generale. L'invariante del gioco sta dunque nel tentativo di generare e
proporre «devianze» in grado di confrontarsi e dialogare con i
leitmotiv
della «durata» del settore di pertinenza.
Tra immedesimazioni biografiche ed oculati
scostamenti semasiologici, i reperti di memoria personale e collettiva
trasmutati in «strumenti per la scrittura» proposti nel catalogo Mazzuoli,
costituiscono ormai un’ideale costellazione di
brand, manufatti, figure
e luoghi atti a emozionare sia il cuore sportivo – le Ducati, le Stelvio – sia
quello «nobilmente italiano» tramite il recupero «discreto» e intelligente di
epiche icone nazional-popolari come la Cassia e la struttura morfologica del
dirigibile
Norge che per primo sorvolò il Polo Nord.
Infine – ma è solo l’ultimo degli accertati approdi
produttivi intuiti dell’imprenditore fiorentino – gli orologi da polso. Anche
in questo caso si tratta di idee forti e coraggiose, oggetti – il cui unico
neo, sicuramente non secondario, è l’alto costo unitario – che sollecitano reminiscenze su ormai desueti mondi paralleli
industriali come nel caso di
Manometro,
Contagiri e
Trasmissione
Meccanica.
Il primo, nato quasi per caso da un sopralluogo in
fabbrica, gli fornisce l’occasione per concretizzare il desiderio di sempre
senza doversi ispirare a orologi già esistenti. Una fortunata sinergia,
un’opportunità che Mazzuoli ha saputo declinare con meticolosa attenzione al
dettaglio, al potere propulsivo e coinvolgente implicito nel variare dei
materiali, nel bilanciare pesi e misure, creando anno dopo anno una gamma di
straordinario pregio e sensatezza, dove ogni nuova tipologia d’uso sa
dimostrarsi talvolta, quando non addirittura spesso, più accorta e convincente
del modello di origine – è il caso di
Manometrino, Manometro Pendoletta e,
soprattutto, di
Manometrino da tasca di cui parleremo anche più avanti.
Il secondo – calco cronografico del contagiri posto sul
cruscotto dell’adorata Alfa Romeo GTA – è invece frutto di un lungo periodo –
circa tre anni – di elaborazione, tre brevetti internazionali necessari alla
sconvolgente
mise en forme di una nuova «idea di tempo». Una ritmica non
più ciclica, infinitamente identica ma linearmente progressiva e ricorrente
insieme. Scandito da brusche fratture – un’unica lancetta retrogradante che si
muove su un arco di 270° e non 360° – il tempo alluso da
Contagiri è aperto allo stupore e alla meraviglia. Un tempo che sapendo «voltare pagina» è
disposto e disponibile tanto alle accelerazioni improvvise dell’inatteso quanto
ai rallentamenti della memoria e del sogno.
Infine
Trasmissione Meccanica, sorta di
elogio della meccanica in cui lo stesso Mazzuoli, dichiarando il proprio amore
nei confronti di «elementi disegnati per la loro funzionalità senza la minima
ricerca dell’estetica»
16 ,
in realtà testimonia il contrario. Poiché l’estetica è indissociabile dalle
grammatiche costruttive che presiedono all’attribuzione di funzioni e dei due domini
sono le prime a contenere le seconde, non viceversa. Nessuna delle operazioni
di
transito effettuate da Mazzuoli avrebbe potuto essere attuata se così
non fosse, se cioè le funzioni, apparentemente originarie, non rappresentassero
che maschere sovrapposte a volti potenzialmente assai più espressivi, complessi
ed aperti: a qualcosa di ulteriore, di già presente dinanzi a noi ma che
proviene a noi
sub specie di scoperta, d’illuminazione inventiva.
Seguendo l’autore, si deve al talento connettivo e
«stuporoso» di nuovi occhi aperti sulla
stessa cosa, il risultato
ottenuto con
Trasmissione Meccanica dove «l’ingranaggio è diventato la
cassa, il disco della frizione (...) un particolare quadrante, mentre la corona
di carica è identica all’albero scanalato (...) che trasmette la rotazione dal
motore al cambio. Le lancette invece sono quella specie di compasso che era
presente sul banchino del meccanico. Un tempo vedevo spesso smontare e
rimontare il cambio e quasi sempre con ansia per poter poi girare con la macchina.
Oggi lo guardo con occhi diversi, tanto diversi da prendere spunto da queste
parti meccaniche per trasformarle in un segnatempo»
17 .
Una dichiarazione di poetica e, forse, una prima
stesura dei tratti di quel sopracitato «problematicismo esistenziale e
conoscitivo». L’applicazione tematizzata di quell’«atteggiamento mentale,
posizione percettiva che si fa taglio interpretativo, ermeneutica» che, come
tale, è stato concepito proprio qui in Toscana. Un’ermeneutica che sebbene
avvinta nel «particulare» dei ricordi di gioventù non deve però essere
equiparata al mero memento, all’elucubrazione privata. Perché in gioco non vi
sono soltanto i valori intimi e personali attribuiti dall’autore, bensì, e
fondatamente, ragioni intersoggettive, sociali, fors’anche di specie. In queste
piccole, ingegnose sculture portatili, capaci di sorprendere e insieme
rincuorare chi le stringe nelle proprie mani, sono riattivate nell’immediato
connessioni antropologiche ulteriori rispetto alle semplici memorie infantili,
adolescenziali o comunque giovanili.
Volendo chiosarle nel complesso, gli strumenti per
la scrittura e i cronografi di Mazzuoli rivisitano icone di genere prive di un
nome proprio – se non l’epiteto affettuoso affibbiatogli dai proprietari –
nelle quali è però racchiusa una dignitosa atmosfera d’antan – ad un tempo
allusiva sia a laboriosi
tour de force
che a prestigiose
performance. Atmosfera che è connessa ad un mondo
nobilmente fabbrile costellato di oggetti declinati come arnesi, attrezzi e
congegni,
ferri del mestiere nati dal linguaggio sobrio delle officine e
dei designer/carrozzieri che fra gli anni ‘30 e ‘70 hanno fatto la storia del
settore
automotive.
L’astuto slittamento di senso e d’uso proposto dal
richiamo non solo formale dei modelli – la cui origine s’intuisce in un lampo
negli appellativi delle collezioni, dei modelli e delle lavorazioni:
4 tempi,
Lima,
Cassetta,
Madrevite,
Fresa Cilindrica,
Alesatore,
Micrometro, Puntino, Maschio, Moka, Mokina,
Manometro,
Contagiri,
Trasmissione Meccanica –, è la vincente «mossa del cavallo» che
sconcerta al primo sguardo ma offre fin da subito un sedimentato
appeal.
Un fascino d’epoca che pur attingendo a diversi
altrove storici
condivisi
si trasfonde con naturalezza ad ogni nuovo prodotto di questa piccola azienda
di Tavarnelle Val di Pesa conosciuta ormai nel mondo.
Come per gli eroi dei miti classici, le penne e gli
orologi di Mazzuoli ci appaiono posseduti da
daimon ulteriori ma
oltremodo familiari, lari e penati in grado di connettere e soffondere il
mana
tecnologico-efficentista con taumaturgiche possibilità, tanto enigmatiche
quanto sotterraneamente potenti.
L’unione d’intenti fra cura del dettaglio tecnico e
«trasferimento affettivo» delle recondite potenzialità «terapeutiche» implicite
negli oggetti per la persona ha poi un’eclatante conferma nel
Manometrino
da tasca del 2012. Ne parla direttamente Mazzuoli, tra l’altro
proclamando un’intelligente propensione a «lavorare sul già esistente»
piuttosto che ostinarsi sul «nuovo»
18 .
La soluzione mimetica individuata nella sostituzione
della catenella con raccordi snodati di tubetto di gomma esalta, se possibile,
l’ambivalenza e lo stupore provocato dal modello originale. Approfondendo il
tema, Mazzuoli si approssima «al concetto che ha dato origine all’orologio: manometro -
pressione - aria – “tubo”». Arriva quindi a proporre nuove ragioni e sensatezze
all’iniziale intuizione analogica avviata con
Manometro, aprendo
decisamente una quinta, con
Manometrino da tasca, verso il
medicale sfigmomanometro. Quale migliore dimostrazione potrebbe
essere addotta per testimoniare la forza germinativa e progettuale, così spesso
inascoltata, racchiusa in
quel che ci lega?
In conclusione, sbaglieremmo a cogliere nel lavoro di
Giuliano Mazzuoli il solo suggello emozionale scaturito dal potere ecolalico
della «ripetizione» dei segni appartenenti a mondi perduti. Se in questi
lavori, infatti, possiamo reperire un
quid d’umanità che si confronta e
trapela, questo
quid, pertiene – assai più che al fanciullo ozioso,
malinconico o sognante –, alla pratica intelligenza dell’
homo faber, ovvero
a quel determinato
tipo antropologico afferente e connesso tanto
alla sfida del meccanico pioniere del ‘900 quanto alla scintilla originaria del
primate artiere che scheggiando la selce ne ricavò i primi utensili della
nostra eroica era di
costruttori. E il richiamo a questi mondi non è
affatto replica mnemonica bensì fa parte di quella pratica attiva,
quell’imprescindibile e incessante esercizio ermeneutico cui, molto
presumibilmente, noi tutti dobbiamo la presenza di vita sul nostro pianeta.