Il percorso progettuale di un autore è segnato dalle mostre a lui dedicate, grandi o piccole che siano. Il prima (della mostra) e il dopo (la mostra) non sono mai uguali. Le mostre sono quindi intangibili, ma inespugnabili baluardi spartiacque. L'autore vi arriva carico di un fardello di cose compiute, di pensieri fatti, di storia vissuta
e ne riparte con una nuova spinta propulsiva. I visitatori usualmente giungono a quella stessa mostra con un'idea in qualche misura preconcetta, e ne escono con un'immagine nuova negli occhi, un ritratto a tuttotondo. Se ciò non avviene qualcosa non ha funzionato nel rapporto alchemico autore-curatore-spazio. Lorenzo Damiani ha scelto, progettando l'allestimento per questa sua monografica in Triennale, di dialogare fortemente con il luogo (vedi in particolare il pilastro centrale reinterpretato come situazione espositiva), di ricucirlo con il più ampio spazio ospitante dedicato al Design Museum (vedi le passatoie che fuoriescono dal «luogo di Lorenzo» tracciando a terra
dei punti interrogativi), di ironizzare su certe caratteristiche peculiari (vedi il tunnel di uscita, eccessivamente lungo e ombroso, riletto come «la zona lavamani di un autogrill»). Ma Lorenzo non si ferma qui, dall'analisi dello spazio nasce infatti non solo il lavoro di architettura degli interni, ma anche uno stimolo al designer.
Due, nella lettura propostaci da Lorenzo, le presenze «istituzionali» caratterizzanti lo spazio deputato alla mostra: l'estintore e il custode. Se ai più tali presenze sarebbero passate inosservate, non è così per Lorenzo: il custode viene quindi dotato di una idonea «Triennale Chair» che nello schienale allude alla gloriosa T, ma soprattutto
si «arma» di un porta-bottiglietta-di-minerale e di un porta-libro-per-ingannare-l'attesa e l'estintore, quell'estintore che tutti, all'atto di allestire una mostra, abbiamo cercato di nascondere o almeno spostare, immediatamente redarguiti dai responsabili della sicurezza antincendio, trova finalmente un suo onorato posizionamento all'interno di una lampada da terra ad arco appositamente progettata.
Dice il proverbio popolare: «L'occasione fa l'uomo ladro», ma cosa succede se l'uomo è un inventore?
MA DOVE SONO FINITI GLI INVENTORI? LORENZO DAMIANI
II mondo contemporaneo è prigioniero delle forme: opache. Il designer ne è il grande sacerdote. Teso a controllare la raggiatura di un angolo, a scegliere oggetti «profetici» nel catalogo del già-detto. Un design da «fine impero», ove la necessità non esiste più e il lavorio sulle sagome diviene funzionale alla sopravvivenza della specie. Fenomeno acuitosi in tempi recenti, ma non sconosciuto alla storia del progetto, anzi caratteristico dei momenti di grande omologazione (si pensi al periodo dell'International Style). Sigfried Giedion, molti anni or sono, stigmatizzava tale attitudine formalistica come tipica della civiltà europea contrapponendola alla pragmaticità fattuale della tradizione americana. Quale emblema della prima realtà Giedion poneva il progettista, sofisticatamente chiuso in un mondo autoreferenziale, come emblema della seconda: l'INVENTORE.
L'inventore: questo personaggio cui non siamo più abituati ma che un tempo abitava nell'immaginario collettivo. L'inventore: figura posizionata in quel limbo che connette il mito a una quotidianità un po' strampalata, le vere invenzioni a un bricolage sostanzialmente fine a se stesso. Gli uffici brevetti del mondo intero conservano
le peculiari testimonianze di questo fervore creativo. A volte del tutto inutile e comunque, come dicevamo, oggi «in disuso».
Ma l'inventore, e la sua scomparsa, cosa hanno a che vedere con il mondo del design o, meglio ancora, con la crisi del design? Può l'inventore essere proposto come un modello alternativo? Con la sua grancassa di alambicchi, viti e tubi, con la sua disattenzione al look, con la sua timidezza e la ritrosia a dichiarare i suoi pensieri, può l'inventore contrastare i guru della forma, gli addict dello stile, i rivoluzionari da giornale patinato?
È ripristinabile un modello progettuale che postuli il progetto non come styling, ma piuttosto come superamento della realtà? È ancora immaginabile un rinnovamento delle forme che proceda a balzi, di parecchi metri, e non per scostamenti di pochi millimetri?
Prima di rispondere a queste domande dobbiamo insistere sull'analisi comparativa dei due personaggi: l'inventore e il designer. Magari citando alcune occasioni concrete. Ad esempio… qualora ai due venisse proposto come tema progettuale un «tavolino da soggiorno», il designer procederebbe a definire un'altezza (oggi piuttosto «una bassezza»), a determinare se sia meglio utilizzare, per le gambe, un tubolare quadrato o tondo e se il piano, dagli angoli opportunamente levigati, dovrà essere in legno wengé spazzolato e cerato o in marmo Emperador. Prese queste «epocali» decisioni (e, qualora si tratti di un progettista della «nuova» generazione, verificato anche che il legno provenga da riforestazioni controllate e che il marmo sia stato cavato nel rispetto dell'impatto ambientale) il designer procederà con una serie di rendering in cui il suddetto tavolino, accostato per garbata suggestione a una poltrona di Mies, traguardi attraverso una vetrata l'oceano Atlantico e possa così assumere la sua «storica» importanza e il suo «giusto peso». Che farà invece l'inventore? Si porrà appunto il problema dell'invenzione, ovvero del superamento dell'esistente per procedere oltre, e quindi si chiederà: «Usualmente, cosa NON fa un tavolino da salotto?»
Eliminate, attraverso lunghi e minuziosi ragionamenti, tutte le risposte futili del tipo «non parla» (ma è alquanto inutile che parli); «non cammina» (ma sarebbe scomodo che lo facesse), l'inventore potrà ad esempio verificare che, usualmente, un tavolino da salotto «non fa vento» e che questo, in un'epoca di surriscaldamento del pianeta, può effettivamente costituire un problema. Si ingegnerà allora per inventare un tavolino che faccia vento (Airtable, 2009).
Oppure si potrebbe pensare a una poltroncina. Se al nostro solito designer venisse commissionata una poltroncina, magari da esterno, trattandosi di persona colta andrebbe a riguardarsi la storia del design, in specie le straordinarie vicende del design scandinavo, e infine produrrebbe un oggetto che attualizzasse le forme anni cinquanta
di Finn Juhl. E invece l'inventore? L'inventore cercherà dei semilavorati che magari siano destinati a stare all'aperto o, ancor più che all'aperto sottoterra o nei muri, magari dei tubi di plastica per gli scarichi (se l'acqua ci cola dentro e l'umido ci sta intorno e non succede nulla, perché non dovrebbero fare al caso nostro?) e poi li giunterà, per costruire poltroncine come onirici sistemi idraulici (Tuttitubi, 2003).
E se si trattasse di un feltrino? Provate ad andare dal «designer», quello di cui sopra al quale ormai siamo quasi affezionati, e chiedetegli di disegnare un «feltrino». Vi guarderà stupito, poi, essendo come abbiamo detto un tipo colto, si ricorderà dei «Feltri» di Gaetano Pesce e vi dirà che è difficile migliorarli (e soprattutto rimpicciolirli), trattandosi già di un capolavoro. E quando gli parlerete dei feltrini che si comprano al Brico o dai ferramenta per metterli sotto le gambe delle sedie, vi guarderà, incuriosito dalle vostre capacità pratiche e dalle vostre conoscenze logistiche e, scusandosi, citerà una non meglio identificata cameriera che non lo aveva informato sull'esistenza e la necessità dei «feltrini». E l'inventore invece? Ma l'inventore vive nei Brico Center, ha passato l'infanzia tra gli scaffali di Meazza, può dirvi a memoria qual è il ripiano dei feltrini, quelli bianchi e quelli marroni. Inoltre l'inventore sa «delle forbici», sa che il feltrino non basta… bisogna avere le forbici, per sagomarlo sul diametro della gamba… e l'inventore non vuole essere schiavo delle forbici! Inventerà allora un feltrino già «sforbiciato» (Fel3, 2005).
Lorenzo Damiani appartiene alla genia degli inventori.
Abbiamo le prove per sostenerlo. Innanzitutto Lorenzo non basa la sua progettazione sul disegno, e ciò lo protegge dal formalismo. Lorenzo usa il disegno, non ne è dominato. Immagina le cose nella loro costruzione, vede contemporaneamente i componenti e il loro montaggio e il risultato finale. Individua le parti e sa dove andarle a recuperare e sa, persino, con buona pace della Facoltà di Architettura Italiana – anche da lui frequentata con successo – come montarle. Ma sa anche, nuovamente con buona pace della Facoltà di Architettura Italiana, muoversi negli uffici tecnici delle aziende, gestendo progetti estremamente complessi dal punto di vista tecnologico (si pensi al miscelatore OnlyOne del 2006 che combina in un'unica forma rubinetto ed erogatore).
E poi Lorenzo non fa pubbliche relazioni, non appartiene alla «buona società milanese», non frequenta i giornalisti, non si veste di nero e se lo incontri non ti dice di aver appena finito un progettino «fresco» (uno degli aggettivi più ferocemente da abolire), ma nemmeno di aver concepito un oggetto dissacratorio. Se lo incontri Lorenzo ti chiede: «Come stai?» e aspetta anche la risposta. Basterebbe questo per sostenere che, nel panorama del design milanese (ovvero nel panorama del design italiano), Lorenzo è un diverso! Ma non è ancora finita… un'azienda che chiedesse un progetto a Lorenzo (cosa invero non così frequente per quella famosa faccenda che i «giovani» designer,
in Italia, devono «invecchiare» per poter lavorare) rischierebbe, dopo un adeguato lasso di tempo, di sentirsi rispondere che è molto spiacente, ma che su quella specifica tipologia non gli sembra di poter dire niente di interessante e che quindi rinuncia all'incarico (Lorenzo autolesionista? o solo progettista serio – razza in via d'estinzione?).
Deriva da questa capacità di «dire NO» un'altra caratteristica peculiare: i lavori di Lorenzo alla fine assomigliano a Lorenzo, come certi cani ai loro padroni.
Cifra ne è la CONTINUITÀ. Una continuità che si è costruita senza sbavature dal 1995, data del primo progetto.
La continuità è un valore.
La continuità è rara perché presuppone quel tanto di rigore che non ti consente di scendere a compromessi. La continuità avvicina Lorenzo a designer come Paolo Ulian e Konstantin Grcic, lo allontana da coloro che ogni tanto producono capolavori e sovente solo lavori, da coloro che nascondono dietro a progetti dimostrativi una pratica professionale alquanto basica.
Lorenzo Damiani è quindi, per questa sua propensione al fare, il più «straniero» dei designer italiani. Come abbiamo detto Lorenzo ama la componentistica, conosce i semilavorati, conosce l'esistente e lo usa per allontanarsi dall'esistente. Ma non si può sostenere, per confutare uno degli stereotipi più comuni nelle letture critiche sul suo lavoro, che Lorenzo sia un funzionalista. Anzi, Lorenzo è un anti-funzionalista o meglio è teso a superare la funzione. Il funzionalismo è in fondo un'estetica rilassante ove domanda e risposta coincidono senza sbavatura alcuna. Ove non c'è paura e non c'è sorpresa e gli oggetti – «oggetti Lexotan», «oggetti Prozac» – fanno educatamente il loro dovere. Gli oggetti di Lorenzo non fanno mai il loro dovere, quanto meno mai in prima istanza (vedi la lampadina nel blister trasparente che NON deve essere estratta! – Packlight, 1995).
Sono oggetti ginnici, oggetti interattivi, forse a volte, oggetti «pericolosi», forse a volte, oggetti «borderline».
Quasi sempre oggetti costruiti con materiali semplici perché, senza saperlo, Lorenzo è un seguace di Gio Ponti quando sosteneva che non esistono materiali «ricchi» e materiali «poveri»: sono solo il tempo e l'intensità dedicati al progetto a renderli tali (poco tempo = oggetto povero, molto tempo = oggetto ricco).
Ma Lorenzo non è nemmeno un minimalista. Per i minimalisti, i pochi veri minimalisti, ogni segno è un rito, ogni leggero slittamento comporta una scelta. Lorenzo è piuttosto l'ultimo seguace di Man Ray, strenuo difensore dell'objet trouvé. Non surrealista però, piuttosto brutalista.
Ecco, Lorenzo Damiani è, nonostante l'aspetto angelico, un «brutalista garbato» (se ci pensate anche Munari è stato, nonostante l'aspetto angelico, un brutalista garbato!).
Lorenzo vuole vedere, e vuole farci vedere, le cose: dentro e fuori. I meccanismi, le interiora delle cose, ma anche la bellezza del loro contenitore, della loro corazza. Interno ed esterno, perché l'antinomia di celare e mostrare (viscere e pelle) è per Lorenzo basilare. Pensiamo a quella croce disegnata come una cavità atta a contenere una candela: perché il simbolo della speranza brilli dentro al simbolo del dolore (Luce, 1999).
Ma ora, ricucendo gli inizi di questo discorso, è arrivato il momento di affrontare il punto nodale di «Lorenzo Damiani inventore» ovvero il concetto di «ibridazione tipologica» (tavolino-ventilatore / specchio-tavolo / aspirapolvere-pouf / poltrona-valigia). Attitudine che caratterizza fortemente il lavoro di Lorenzo, rendendolo praticamente non comparabile con quello degli altri designer. Innanzitutto va chiarito un aspetto fondamentale: Lorenzo «opera degli innesti» non pratica «la dottrina del trasformabile».
Il trasformabile «nasce per fingere», innanzitutto per fingere di non essere trasformabile, indi per fingere di essere destinato a un ambiente più grande o diverso da quello in cui ci troviamo davvero. Il trasformabile incarna insomma una recita piccolo borghese.
Gli oggetti di Lorenzo non hanno nulla da nascondere. Non fingono. Non celano un'anima fatta di materassi ripiegati. Non simulano altro da sé. Sono «altro da sé».
Gli oggetti di Lorenzo sono, nella loro polisemia, sinceri (di nuovo assomigliano a Lorenzo: anche Lorenzo è sincero). Certo possiedono sovente un duplice uso, ma come succedeva agli animali mitologici. Gli oggetti di Lorenzo, con buona pace di molti critici, non sono trasformabili, sono grifoni: metà aquile e metà leoni. Sono centauri, sono ippogrifi. Da ogni ibridazione nasce una storia nuova. Storia di oggetti, storia di comportamenti: ad esempio la favola di quell'uomo che girava un tavolino e faceva vento (Airtable, 2009), o di quell'altro che nascondeva una valigia, sempre pronta, sotto una poltroncina (Poltrolley, 2007). Perché le funzioni nascono dai comportamenti.
E Lorenzo guarda ai comportamenti, anche a quelli meno strict – e quindi forse più umani – come l'abitudine di ri-regalare un dono ricevuto. Ecco allora il nastro progettato nel 2009 per dare dignità, e sincerità, al pacco che contiene un oggetto riciclato. Progettato sapendo che «la catena dell'uso» è in fondo l'unica vera ecologica forma di riciclo al 100% (100%, 2009).
Ma gli oggetti di Lorenzo non sono neanche, come sovente si è detto, dotati di «doppio senso». Il «doppio senso» è come il «trasformabile», implica la pruderie della borghesia. Lorenzo non usa doppi sensi, non ammicca e non allude. Non c'è nei suoi oggetti traccia di erotismo né la pornografia del nascondere per poi mostrare, occhieggiando.
Lorenzo lavora piuttosto come Darwin indagando e sollecitando la mutazione delle specie. Sforzando le tipologie in nuove catene evolutive. Lorenzo, inventore genetico, conserva, nei suoi occhi e nelle sue mani, la possibilità di stupirsi.
Uno stupore contagioso il suo, uno stupore capace di diventare il nostro stupore.
Ecco dove sono finiti gli inventori!
Triennale Design Museum
MINI & Triennale CreativeSet
Ma dove sono finiti gli inventori?
Lorenzo Damiani
23 settembre – 25 ottobre 2009
A cura di Marco Romanelli
Progetto grafico GB studio
Catalogo Electa
Le mostre del CreativeSet sono un progetto diretto da Silvana Annicchiarico
Triennale di Milano
viale Alemagna 6 - Milano
www.triennaledesignmuseum.it
L'estetica della sorprendenza Gli oggetti di Lorenzo Damiani hanno quasi tutti una caratteristica in comune: sono sorprendenti. Stupiscono, spiazzano, disorientano. E spesso, subito dopo, ri-orientano.
La loro sorprendenza non è quella conferita a un oggetto da un mago, o da un prestidigitatore: non sono «cappelli a cilindro» da cui fuoriescono coniglietti bianchi o fazzoletti di seta colorata.
Sono, piuttosto, oggetti capaci di fare cose che non ti aspetteresti potessero fare.
Un pouf, da cui ti aspetteresti di poterticisi sedere, si rivela capace anche di aspirare la polvere dal pavimento. Dei tubi idraulici, da cui ti aspetteresti la tenuta ermetica rispetto al flusso dei liquidi, diventano la struttura modulare di una poltroncina da esterni. Un tavolino rivela in realtà di poter funzionare anche da ventilatore. E la trama di un tappeto si fa anche mappa del mondo.
Un'analoga sorprendenza caratterizza, nel lavoro di Damiani, anche l'uso dei materiali. Gli scarti della lavorazione del vetro diventano l'anima preziosa e irripetibile di inediti pezzi unici usciti dai laboratori dei maestri vetrai di Murano. La segatura prodotta dai tradizionali lavori di falegnameria diventa la seduta di un nuovo modello di sedia.
E si potrebbe continuare. Beninteso: non siamo di fronte all'ennesima versione del readymade. Damiani non è l'ultimo epigono della poetica del riciclo o del riuso.
È piuttosto un alchimista, un chimico, un genetista oggettuale: uno che usa il suo sapere e i suoi alambicchi di bottega per sperimentare innesti impensati, per saggiare i limiti funzionali di una tipologia, per esplorare la possibilità di fondere in un unico artefatto più tipi e più funzioni. Il suo lavoro rappresenta una delle più clamorose smentite alle lamentazioni apocalittiche, rituali e ormai un poco anche grottesche di quegli snob nostalgici ed elitari che – in nome di un mitico passato perduto – accusano il design italiano contemporaneo di essere minimalista, frivolo, fatuo e inconsistente. Se si guarda al lavoro di Damiani – così come a quello di altri designer della sua generazione – senza pregiudizi e senza paraocchi, non si può non vedere come in esso pulsi e vibri e risuoni la lezione dei grandi Maestri – da Achille Castiglioni a Denis Santachiara – ma adeguata a un contesto, a una cultura e a una società che non sono più quelle in cui i Maestri si trovarono a operare. Del resto, se non fosse così, Damiani non potrebbe sorprenderci come invece sa fare. Perché la sua sorprendenza è un mix di intuito e cultura, di tradizione e spregiudicatezza, di conoscenza dell'esistente e di consapevolezza della necessità di andare oltre. Di non poter accettare mai i luoghi comuni. I limiti imposti. Le visioni risapute. Damiani è tanto intimamente abituato a lavorare in questo modo che ha operato sorprendentemente anche nell'allestimento della mostra che il Triennale Design Museum ha deciso di dedicargli, forzando i limiti dello spazio, e riguardandolo da una prospettiva diagonale del tutto inedita, che fa del CreativeSet – il luogo in cui ha sede la mostra – un ambiente diverso rispetto a quello definito dagli usi che ne erano stati fatti in precedenza. A dimostrazione di una coerenza che si è fatta ormai metodo, rigore e, forse, anche marca di stile. Silvana Annicchiarico
Lorenzo Damiani. Nato nel 1972 a Lissone, vive a Monza. Nel 1999 si è laureato in Architettura presso il Politecnico di Milano e successivamente ha conseguito un master in disegno industriale presso la Scuola Politecnica di Design. Si occupa di furniture e product design e ha collaborato con diverse aziende tra cui Campeggi, Cappellini, Montina, Acqua di Parma, Abet Laminati, Erreti, Omnidecor, Coop, Illy Caffè, IB Rubinetterie, BBB EmmeBonacina, Skitsch, Tabu, Tod's. Nel 1998 ha ottenuto il premio Progetto Giovane-Compasso d'Oro, nel 2001 e nel 2008 la Segnalazione d'Onore sempre al Compasso d'Oro. Nel 2001 e nel 2007 un Good Design Award del Chicago Athenaeum a Chicago, nel 2001 e nel 2004 il Primo Premio al concorso «Young&Design» bandito da Rima Editrice. Due le mostre personali: «Il Doppio Senso delle Cose», curata da Cristina Morozzi, alla Fiera di Milano nel 2003 e «In-Coerenza», presso la Otto Gallery di Bologna, nel 2004. Ha partecipato a varie edizioni del Salone Satellite di Milano e costantemente a Opos. I progetti «Flex» e «OnlyOne» appartengono alla collezione permanente del Museum of Architecture and Design di Chicago.
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