COSTRUIRE SENSO DISEGNANDO OGGETTI Intervista a Odo Fioravanti |
La distanza che intercorre fra la generazione dei designer nata a ridosso del secondo conflitto mondiale e la generazione dei «nativi digitali» può essere colta confrontando due considerazioni apparentemente «innocue». La prima, di Sergio Giobbi, volta a segnalare come l'ormai elevatissimo tasso di competenza tecnica e tecnologica richiesto dalla disciplina possa costituire un problema per molti neo-laureati: «oggi, credo, per un giovane che inizia, sia abbastanza problematico questo lavoro se non ha alle spalle una scuola seria o la pratica presso uno studio ben organizzato». La seconda, tratta dall'intervista che segue, intravede un efficace ausilio nelle sorprendenti capacità autopoietiche offerte sul web dai portali partecipativi: «ai tempi in cui studiavo era difficilissimo apprendere le tecniche produttive, se non con una esperienza diretta in azienda, invece adesso si trovano filmati incredibili su YouTube che spiegano praticamente qualsiasi processo industriale e meccanismo economico». Senza nessuna pretesa di dirimere fra queste due modalità interpretative circa gli effetti svolti dalle «globalizzazioni» sul futuro della professione, resta però da notare come per due eminence grise del design nostrano – Rossana Orlandi e Patrizia Moroso – la scelta dei collaboratori dipenda anche dalla loro capacità di «sporcarsi le mani». Per la gallerista milanese i giovani designer stranieri «sono più abituati degli italiani "a sporcarsi le mani" e sono più concreti», mentre per l'art director di Moroso, l'interesse dell'azienda preferisce rivolgersi a «personaggi "impuri" (...) prerogativa di tutta la scuola inglese, che è caratterizzata dal farsi le cose da soli, dal cercare di realizzarle e verificarle al vero piuttosto che dal portare dei bei disegni alle aziende». Per meglio emergere, dunque, i designer di domani dovranno anche dimostrarsi abili artifex, ovvero in grado di adottare un «metodo pratico» o applicare una «tecnica» per ottenerne un oggetto. L'intervista qui proposta manifesta come, oggi, in Italia – in parziale contrasto con quanto espresso da Orlandi e Moroso e con la suggestione «hermetica» espressa più sopra da Fioravanti –, alla generazione dei grandi maestri architetti-designer (dopo una fase critica tuttora non facile da decifrare), stia seguendo una lenta ma costante emersione di figure autorali a chiara impronta «efestica» e fabbrile. Capaci cioè – come accade al dio greco affetto da zoppìa – di coinvolgersi in pratiche contraddistinte da un itinere ellittico. O, in altri termini, segnate dall'introiezione nello stesso modus operandi di «leve» contestative che nascono e si alimentano – si veda il ruolo tutt'altro che accessorio attribuito dal designer alla cucina nello studio – in «corso d'opera»: appunto nel «mentre» del processo realizzativo, arrivando a porgere, col prototipo ma non solo, domande inusitate e sorprendenti al proprio faber. Ovvero consentendo luogo e occasione per blandire, tramite la «soglia» della viva sperimentazione, quel potenziale effetto matrix sotteso al costante aumento di informazioni acquisibili tramite «protesi» tanto più potenti ed efficaci quanto più effettivamente mediate, indirette e deprivate della possibilità di eccepire e «contestare» in loco. (U.R.)
Federica Capoduri: Non è da tutti avere nel proprio campionario d'idee anche oggetti destinati a essere usati in larga parte dalla quota rosa: set di utensili da cucina, pentole, tortiere, vassoi, vasi, battipanni - ricordiamo con piacere quest'ultimo pezzo proposto per l'iniziativa Design alla Coop. Indubbiamente ci vuole una certa sensibilità e maggior propensione all'osservazione quotidiana che in altri settori, quindi ti chiedo: oltre alla tradizionale ricetta, ci vuole un pizzico di un ingrediente segreto, o sbaglio?
Odo Fioravanti: Penso che quasi tutti i designer uomini abbiano una componente femminile spiccata, almeno nel senso più ovvio dell'aggettivo. Basti pensare che quando vado in edicola, faccio un carico di riviste orientate al pubblico femminile che sortisce sempre l'effetto di farmi guardare storto dall'edicolante.
Quello che voglio dire è che l'attenzione ai temi della bellezza, della forma, della funzionalità, nell'esperienza di tutti sono più vicini alla sfera femminile, all'esperienza della mamma, della nonna.
I decisori di acquisto restano loro: anche quando gli uomini pensano di poter scegliere alla fine la loro scelta è orientata in modo più o meno subliminale dal gusto e dai desideri delle donne che hanno vicino.
In questo mi sento di avere piacere nel disegnare oggetti che hanno un certo grado di femminilità. L'ingrediente che ti direi forse è la gentilezza. Essere gentili – come ci insegna la storia della letteratura – non è solo questione di civiltà nei modi ma di un approccio puro e delicato alla vita, verso le cose e le persone.
Federica Capoduri: Su Calandra, prodotto anch'esso romanticamente gentile, voglio insistere sull'ipotesi che uscì durante un tuo intervento – per il ciclo «Lezioni di Design» svoltosi a Firenze nell'estate 2012. Si parlava di un «vassoio-anticrisi» che sembrasse subito pieno…
Odo Fioravanti: A dire il vero il progetto partiva da un altro tema, sempre di budget basso, che era quello di produrre oggetti con tecnologie semplici, che però potessero sembrare preziose. Usare la calandratrice, una macchina un po' desueta che incurva la lamiera è stato il passo che mi ha consentito di lavorare su un oggetto curvo che però avesse una tridimensionalità interessante. La cosa divertente è che dopo i primi esperimenti si è scoperto che la frutta posta nel vassoio sembrava moltiplicarsi per un gioco ottico e questo ci ha suggerito di esagerare l'effetto e farlo diventare una forza aggiuntiva. Così si è chiuso il cerchio di un prodotto che nasceva low cost e finiva per sembrare un moltiplicatore del cibo; a colpo d'occhio sembra pieno anche se non lo è…
Federica Capoduri: Descrivici il tuo studio, la stanza dove lavori: assomiglia a un laboratorio artigianale, è un ambiente di retrospettiva familiare, è un non-luogo caotico o apparentemente tale, è uno spazio minimalista dove regnano scrivania e computer in rispettoso ordine…
Odo Fioravanti: Ho visto e lavorato in tanti studi e ho capito che spesso le persone si creano uno studio a forma di una specie di ideale. Cercano di rincorrere e pensano quello che ciò che clienti e giornalisti si aspettano da uno studio. Insomma grandi dimensioni, enormi spazi vuoti, rarefazione, librerie piene di libri e riviste e scaffali zeppi di modellini accatastati in modo disordinato. Dopo un'esperienza di questo tipo ho deciso di portare lo studio in un immobile che è più strutturato come una casa. Si tratta di un appartamento per operai degli anni '30 in cui la cucina ha un ruolo molto importante socialmente e anche in termini di dimensioni. Per il mio studio il momento in cui si mangia assieme è cruciale per lo scambio di pensieri e sensazioni tra le persone che ci lavorano. I pranzi sono dei veri pranzi, in cui cuciniamo tutti assieme e cerchiamo di dare valore alla nostra esperienza di lavoro, evitando di farci scaldare una piadina triste in qualche bar squallido. Lo studio è il posto dove stiamo più tempo durante la settimana, quindi dargli un'atmosfera domestica è quello che mi ha reso più felice. Lo spazio in cui si lavora è contenuto con le persone vicine per avere scambi veloci di battute e una condivisione diretta delle esperienze, delle scoperte, delle informazioni nuove che acquisiamo. Uno spazio di condivisione privo di segreti, in cui io lavoro allo stesso tavolo dei miei assistenti. Spesso mi chiedono se sono io il capo e questo per me è già un complimento, perché significa che non ci sono gerarchie e riverenze posticce ma solo un rapporto diretto e schietto con chi lavora nel mio studio.
La mia scrivania è un gran casino, pezzi di materiali, schizzi, modellini, oggetti che mi incuriosiscono. Una specie di inferno da cui faccio saltar fuori le idee in qualche modo. Il computer per me c'è ed è uno strumento importantissimo, mi sento un designer «nativo digitale» e cerco di usarlo in modo corretto, ma anche l'utilizzo delle mani e il lavoro sui modellini di studio per me è cruciale. Insomma, meglio venire a vedere per capire!
Federica Capoduri: Che ricordi hai del tuo futuro? O meglio, raccontaci cosa pensavi di voler fare da grande quando ancora non sapevi che quello che stavi – già – facendo si chiamava design. So che hai percorso strade diverse, le stesse però che ti hanno permesso di vedere ciò che sei attraverso ciò che non sei…
Odo Fioravanti: Ho avuto tante idee da bambino riguardo il mio futuro, riguardo a questa voglia di esserci e esserci in modo creativo. All'inizio volevo fare il torero, lo dico sempre, perché mi piaceva l'eleganza di quei gesti e l'abito di luce che indossano. Poi man mano che crescevo continuavo a costruire sempre più spesso accrocchi e oggetti che ancora conservo come veri e propri «early works». Pensai perciò che avesse a che fare con l'ingegneria. Allora iniziai a dire che volevo fare l'ingegnere aerospaziale, ma poi mi iscrissi a ingegneria e fu un po' un disastro finché non incontrai per caso il design e cambiai completamente la mia vita ripartendo da capo. Ora che sono grande, da grande vorrei fare il papà della mia bimba che è nata da pochissimo e nei ritagli recuperare la passione che ho scoperto troppo tardi per l'antropologia. Ecco: da grande voglio fare l'antropologo…
Federica Capoduri: Vorrei porti adesso lo stesso quesito che fece Marco Romanelli nella conversazione con Paolo Ulian per la rivista Inventario, più o meno un anno e mezzo fa: «Un'altra etichetta difficile da toglierti di dosso è quella del giovane designer». Ulian rispose che ancora lo chiamano per cose sul giovane design e poi, guardando bene la data di nascita, credono di aver sbagliato Paolo Ulian! Sempre su questo tema potrei descrivere l'esasperazione con la quale Matteo Ragni, in tono simpatico, definiva questa eterna classificazione in un incontro alla Design Library di Milano. Insomma… con un passato da giovane designer almeno tu adesso puoi definirti un designer puntoebbasta?
Odo Fioravanti: Paolo Ulian credo abbia 13 anni più di me e 11 più di Matteo Ragni, quindi credo spesso si sia fatta confusione mettendo nello stesso calderone persone che hanno iniziato a lavorare in momenti molto diversi. Per dire che quando ho iniziato a studiare design nel 1998, Paolo e Matteo erano già arcinoti. Detto questo ho sempre rifiutato l'etichetta di «giovane designer» che credo dipenda dalle basi gerontocratiche della nostra società, per cui a 40 anni sei ancora giovane. Credo che un designer si possa definire giovane al massimo fino ai trent'anni, quindi sono definitivamente un designerebbasta. La categoria «giovane» è solo un trick dei giornalisti per aggiungere valore o un senso di freschezza alle persone. Non invidio quelli che vengono promossi sui giornali come i giovani di turno, perché si tratta di un meccanismo che fagocita le persone, le digerisce con gli acidi della comunicazione e poi le espelle con spensieratezza.
Federica Capoduri: Alla luce delle esperienze che hai fatto in questi anni con gli studenti di varie Scuole e Istituti, quali altre sinergie o nuovi scenari – oltre ai pluricitati stage – potrebbero essere sviluppati? Forse uno spunto può anche essere preso dalla tua personale Industrious Design alla Triennale di Milano…
Odo Fioravanti: Guardo con molta attenzione al mondo del web. Sinceramente potrebbe diventare sempre più una piattaforma per lo studio del design, che non avrebbe eguali. Per esempio: ai tempi in cui studiavo era difficilissimo apprendere le tecniche produttive, se non con una esperienza diretta in azienda, invece adesso si trovano filmati incredibili su YouTube che spiegano praticamente qualsiasi processo industriale e meccanismo economico. Penso che sempre più i designer potranno esportare il loro modo di pensare in mondi diversi, facendo migrare i processi tipici di questa disciplina in altri mondi. Per me l'ultimo anno ha segnato la crescita di esperienze come consulente e lecturer, in cui mi si chiedeva di raccontare e provare a insegnare a manager e dipendenti di grandissime multinazionali, i principi del design, dell'ideazione, del pensiero laterale. Credo che queste cose che per i designer sono pane quotidiano, abbiano un valore grandissimo in campi diversi. Per il mio lavoro la frontiera di condivisione di questi pensieri e dei processi che ho messo a punto in questi anni credo sia sicuramente una delle linee guida più interessanti per il futuro. Insomma partire da quello che si impara disegnando oggetti per arrivare a costruire senso.
Nella mia mostra, come giustamente dici, il tema era proprio la condivisione del lavoro quotidiano del designer con la gente che passava all'interno del Museo e che mi trovava lì, in mostra con i miei oggetti. Stavo lì a progettare e mostravo alla gente cosa ci sta dietro, il workflow, i passaggi fondamentali. Questo per condividere e rendere evidenti quali sono i motivi che portano una sedia a finire in un museo.
Federica Capoduri: Con che tipo di pubblico hai avuto modo di confrontarti?
Odo Fioravanti: Il pubblico era qualsiasi. C'erano gli addetti ai lavori che guardavano tutto con occhi un po' distanti e la gente comune che voleva prendere in mano gli oggetti e provarli a tutti i costi. C'è chi viene e ti racconta un'idea chiedendoti di farla diventare realtà. Soprattutto c'erano i bambini coi loro occhi sognanti e pieni di idee rivoluzionarie, come solo quelle di un bambino sanno essere. C'erano persino i custodi della Triennale di cui sono diventato grande amico e con cui ho condiviso questa esperienza bellissima.
Ho avuto la possibilità di calare il mio lavoro in mezzo alla gente, con l'opportunità unica di stare lì a guardare come reagivano, sentire cosa pensavano, condividere pensieri, complimenti, critiche. Una cosa che non dimenticherò mai.
Federica Capoduri: Nella preparazione dell'intervista a Giorgio Tartaro, lessi un suo trafiletto che mi è rimasto particolarmente vivo nella memoria: Far saltare il tavolo. Parla di come il contraddittorio è motore di molte situazioni e l'andare sempre e comunque d'accordo adagia una parte nella presunzione del vero a scapito di creare opportunità per porre nuove condizioni. Vorrei sapere se ti è mai capitato di ribaltare il tavolo di qualcuno…
Odo Fioravanti: Ehm… sì. Sono un po' irruento e spigoloso a dire il vero, ma è una cosa da cui non riesco a trattenermi. Faccio fatica a farmi andar bene tutto e anzi mi preoccupano le persone che si adattano a qualsiasi ambiente e condizione. Cerco di avere gli strumenti per fare bene il mio lavoro e se non ci sono, certe volte, mi tocca dirlo e dirlo forte.
Federica Capoduri: «Il pensiero non deve raggrumarsi ma sciogliersi nell'oggetto, fino a diventare una specie di anima delicata». Questa tua citazione mi ispira un dualismo cartesiano tra materia e pensiero che ritroviamo spesso nel tuo essere progettista romantico e naturale – lo percepisco soprattutto nei progetti Armillaria e Colibrì – e allo stesso tempo preciso e perfezionista – nei lavori come il monocolo ZoomArt, il telescopio Galileo e la piastrella T-gola. A fronte di questa abilità nello scinderti e anche di saper usare diversi tipi di materiali, vorrei chiederti se hai comunque qualche preferenza sulla progettazione di un oggetto rispetto a un altro, scelta che può essere anche dettata dai materiali…
Odo Fioravanti: Non ho preferenze e lo dico davvero. Mi piace cambiare sempre tipologie e materiali perché penso che essere «esperti» di una tipologia o di un materiale, ti porti inevitabilmente a ripercorrere strade simili. Cambiare invece mi consente di contaminare le diverse aree del design portando esperienze diverse. La curiosità così rimane viva e il brivido di non sapere cosa fare si fa più forte e mi mette in una condizione ideale di apertura verso il possibile.
Federica Capoduri: A differenza di altri, che annoverano nel loro portfolio molti oggetti autoprodotti, il tuo profilo sembra essere molto predisposto alle realtà aziendali e «cooperativo» – o comunque non prevenuto – nei loro confronti. Al di là da un evidente motivo d'interesse o meno di un'azienda verso un prodotto, delle volte l'autoproduzione scavalca l'ipotesi industriale e sembra convalidarsi al progettista come soluzione ideale. Cosa ne pensi?
Odo Fioravanti: Non ho mai fatto autoproduzione sinora, è l'ho sempre percepita come una strada che viene intrapresa quando per un'idea non si dischiudono le porte della produzione industriale. Per me rimane sempre interessante cercare di capire come disegnare cose che facciano aprire quella porta e che possano raggiungere attraverso l'industria e la grande distribuzione, un pubblico altrettanto grande. Si tratta di condividere un messaggio con un pubblico ampio e non quello di costruirne uno di nicchia per un pubblico risicato. L'autoproduzione in quest'ottica è una palestra che consente di tenersi in allenamento in attesa di avere un accesso all'industria vera e propria, un po' come l'autoerotismo è un percorso per gli adolescenti in attesa di un accesso diretto a una vita sessuale più completa. Ecco, per questo dico che un po' va bene ma è meglio non esagerare con l'autoproduzione, perché fa diventare ciechi…
Federica Capoduri: Hai diverse aziende che ti vedono protagonista: cito ad esempio Pedrali – Serif, Woody, Snow sono solo alcuni dei tuoi progetti nel loro catalogo – e Dorelanbed – detentori di un tuo bel trittico di letti. Puoi parlarci di queste prolifiche collaborazioni?
Odo Fioravanti: Si tratta di aziende tutto sommato simili, in cui il cambio di generazione ha visto l'arrivo di ragazzi giovani alla loro guida. Entrambe sono realtà molto sane economicamente e che crescono con numeri da record. Sono anche aziende che hanno creduto e investito molti soldi sul mio lavoro, proprio quando ero uno sconosciuto e cercavo di iniziare a fare le prime cose. Da qui si sono costruiti dei rapporti solidi fatti di prodotti che hanno dato grandi soddisfazioni dal punto di vista della critica e delle vendite e così il nostro rapporto è diventato sempre più saldo. La parte umana in questo lavoro, spesso viene sottovalutata e anzi schiacciata da altre logiche fatte di convenienza economica o di comunicazione. Invece questi due esempi che hai citato rappresentano per me dei rapporti in cui il confronto umano e uno scambio di idee schietto e produttivo, sono la cosa più importante.
Federica Capoduri: Di produzione Pedrali è anche la sedia Frida. La quale, oltre ad essere stata Promosedia Chair Of The Year 2008-2009 e vincitrice del Compasso d'Oro 2011 è, a mio modesto parere, una delle sedie più belle e poeticamente più riuscite degli ultimi decenni. Raccoglie in sé tutta la semplicità, la praticità e l'accoglienza del legno, con una struttura leggera che allo stesso tempo è forte e resistente alle sollecitazioni. Raccontaci tutto di lei, compresa l'emozione di ricevere un premio così magico come il Compasso d'Oro.
Odo Fioravanti: Frida rappresenta un punto di arrivo di un percorso fatto insieme a Pedrali, che a guardare indietro ha qualcosa di incredibile. Siamo partiti da un abbozzo d'idea e lavorando con gli artigiani e poi nel mio studio siamo arrivati alla definizione di questa sedia basata sulla tecnica del 3D plywood. Renderla un vero e proprio prodotto è stato il passaggio più delicato che ci ha tenuto impegnati per diversi mesi, fino ad arrivare finalmente ad avere i primi pezzi prodotti industrialmente.
L'arrivo del Compasso d'Oro ha rappresentato un'emozione incredibile. Mi ricordo che stringerlo tra le mani mi ha fatto tremare le gambe e la voce per qualche ora. Qualcosa di davvero impossibile da descrivere, ma che ci ha ripagato di tutto il percorso di sviluppo intricatissimo che abbiamo portato avanti. Insomma una storia davvero bella da poter raccontare!
Federica Capoduri: Altra nuova tecnologia che hai sperimentato con Pedrali – e che rafforza il concetto di sinergia con l'azienda, di cui parlavamo prima – è quella del gas moulding, dove la Snow Chair ne è degno rappresentante. Parlaci del progetto e delle dinamiche del processo di stampaggio; problemi, soddisfazioni, obiettivi raggiunti e quelli che, eventualmente, sono da raggiungere.
Odo Fioravanti: Il gas moulding era già entrato nel mondo del design con l'esperimento della sedia Air Chair di Jasper Morrison per Magis. I vantaggi erano quelli di riuscire ad alleggerire la struttura di un oggetto svuotandolo grazie al soffiaggio all'interno dello stampo di azoto capace di creare cavità vuote. Mi sono voluto cimentare con questa tecnica e ho pensato di capire come funzionava ed è stato emozionante scoprire che consente di creare strutture in plastica molto simili alle ossa animali. Questo ha fatto tornare i conti con l'estetica biomorfa che stavo pensando per la sedia. Si è trattato di un percorso in cui ho imparato tanto e ho avuto un confronto tecnico molto forte con ingegnerizzatori e stampisti, riuscendo a costruire un risultato che sta dando frutti importantissimi. Si tratta di un vero best seller che vende decine di migliaia di pezzi ogni anno e che mi capita di trovare nei bar di tutto il mondo. La felicità più grande è nel sapere che il messaggio di bellezza e il lavoro che ho riposto in questo prodotto arrivino ogni giorno a tutte quelle persone che usano la sedia Snow inconsapevolmente.
Federica Capoduri: Non solo dai tuoi progetti ma anche dall'estemporaneo blog (www.formdoesmatter.com) che sovente arricchisci di foto, vedo che sei un attento e intelligente osservatore, sempre alla ricerca di un qualcosa. Ciò genera anche instabilità di pensiero che può, a sua volta, essere l'innesco giusto per l'ideazione. Ciò mi riporta alla mente le 3 fissazioni citate da Enzo Mari: curiosità e incertezza (qualità del progetto), onnipotenza (conoscenza profonda di uno strumento)…
Odo Fioravanti: Per me si tratta di una specie di sfogo per i pensieri, che mi aiuta a dare forma e ad archiviare i risultati dell'osservazione di quello che mi circonda. Lo faccio con l'occhio di un bambino che si lascia stupire da quello che vede e cerca nelle forme della realtà significati più profondi. Mi piace collezionare queste cartoline dalla vita di tutti i giorni a cui aggiungo una frase che è una prima riflessione. Sono dei semilavorati che poi finiscono nel modo in cui disegno, lo arricchiscono di senso e significati e mi aiutano a capire il mondo della forma e a pensarlo in modo più profondo e consapevole.
Federica Capoduri: Sempre analizzando il tuo blog, prendo in prestito una frase: «Beauty is the message, form is the language» (La bellezza è il messaggio, la forma è il linguaggio), per indagare con te se può essere vero anche il contrario. Può esistere anche una bellezza che sia linguaggio di comunicazione, uno strumento in grado di avvicinare e accumunare? E la forma delle cose – non mi riferisco all'estetica, bensì proprio alla forma data dalla funzione – può essere l'effettivo traguardo, la chiusura del cerchio, l'ardua conquista di ciò che si vuole?
Odo Fioravanti: Oggi, per una serie di grandi pasticci che ci sono stati nella storia del pensiero, si tende a confondere l'estetica con la cosmetica. Frasi facilone come «la bellezza è soggettiva» hanno smontato pian piano il senso che la bellezza ha avuto nella storia dell'uomo, come sinonimo di giustizia e giustezza. A me interessa questa bellezza, questa proprietà che attraversa il mondo senza mai fermarsi sulla superficie. La cerco nel mio lavoro come messaggio che non ha bisogno di traduzioni o spiegazioni, che è scollegato dal tempo e dallo spazio. Quando la bellezza è risultato di un processo giusto, onesto e privo di artifici, allora si può proprio parlare di un cerchio che si chiude, di un senso di completamento. Credo sia uno dei sensi profondi della vita.
Federica Capoduri: Da toscana non posso non chiederti di raccontare il tuo rapporto con Palomar; storica azienda della tradizione ottica fiorentina con cui ha progettato il telescopio Galileo – per celebrare il quattrocentenario delle scoperte galileiane – e il monocolo ZoomArt – piccolo strumento ottico che si richiama come forma e funzione al primo telescopio galileiano. Design e scienza che si coniugano, know how che si mischiano anche in settori fuori dal seminato…
Odo Fioravanti: Palomar è un caso di azienda unica sia per le tematiche che affronta sia per la qualità dei due imprenditori, marito e moglie, che la guidano. Si tratta di persone di rara intelligenza e raffinatissima qualità intellettuale. Con loro il confronto è stato da subito di livello altissimo e caratterizzato da una sintonia molto forte. Abbiamo creato Zoomart che è un piccolo best seller nel mondo dei bookshop museali e serve a vedere da vicino i dettagli delle opere d'arte e di architettura e Galileo, un telescopio che si prefiggeva di essere domestico e adatto alla casa contemporanea. Sono seguiti grandi riconoscimenti come le menzioni al Compasso d'Oro e un lancio dell'azienda nel mondo del design internazionale. A dirla come direbbero loro: ganzo!
Federica Capoduri: Cosa ricerchi in questo periodo, quali i tuoi progetti in testa e prototipi nel cassetto?
Odo Fioravanti: Ho in ballo tante cose per il Salone 2013, idee che mi fanno felice perché rappresentano dei nuovi traguardi importanti per il mio lavoro. Questi nuovi oggetti e i loro prototipi come sempre affollano fisicamente il mio studio, ma non mi piace parlarne prima che diventino realtà. Sono un po' superstizioso!
Ho anche nuovi progetti che esulano dal disegnare oggetti ma che sono più vicini alla mia passione per la critica e la riflessione teorica sul design. Si tratta per me di un percorso di ricerca appassionante che poi diventa il punto di partenza da cui muove la mia esperienza di progettazione vera e propria.
Federica Capoduri: Per finire: qualche nome che secondo la tua esperienza merita di essere un riferimento a chi si adopera oggi nel Design.
Odo Fioravanti: Sconsiglio sempre di richiamarsi ai maestri o a degli esempi. Si tratta di un meccanismo di filiazione che non mi convince e che crea degli alberi genealogici del design che trovo sempre distorcenti e penso privino le singole persone della possibilità di essere uniche e irripetibili.
Posso dire ai giovani che iniziano, di guardare Dieter Rams e leggere i suoi pensieri. Scoprire gli oggetti di Richard Sapper, collegandoli alla sua severa e al contempo timida ritrosia. Dare un'occhiata al sito di Jörg Boner e osservare la sua capacità di disegnare forme bellissime. Scoprire il lavoro e i video che ritraggono Ole Jensen, un grande dei nostri giorni. Ma poi gli voglio chiedere di scordarseli, di dimenticare tutti e iniziare a disegnare quello che non è mai esistito. L'unica maestria che mi interessa è quella dei giovani che iniziano coraggiosamente a fronteggiare il confine tra quello che c'è stato e quello che ancora deve succedere. In bocca al lupo!
Odo Fioravanti Design Studio
via Moncalvo 4/22A
20146 Milan – Italy
www.fioravanti.eu
studio@fioravanti.eu
www.formdoesmatter.com
phone / fax: + 39 02 48 75 08 57
mobile: + 39 339 38 20 749
Odo Fioravanti. (Roma, 1974) Laureato in Industrial Design presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Dal 1998 si occupa di industrial design, sperimentando anche la grafica e l’exhibition design, con la ferma volontà di ricondurre le diverse discipline ad una materia continua. I suoi progetti hanno ricevuto premi prestigiosi a livello internazionale. È stato docente presso numerose scuole e università come il Politecnico di Milano, lo IUAV di Treviso, l’Università di San Marino, l’Istituto Marangoni, la Scuola Politecnica di Design, la Domus Academy, HEAD Genève. I suoi lavori hanno fatto parte di diverse esposizioni internazionali, culminate nel 2010 con una mostra personale dal titolo «Industrious Design» presso il Design Museum della Triennale di Milano. Nel 2011 ha vinto il Premio Compasso d’Oro ADI con la sedia in legno curvato Frida di Pedrali. Svolge l’attività di pubblicista per riviste del settore design cercando di esplorare le nuove frontiere del progetto come disciplina. Nel 2003 ha fondato l’Odo Fioravanti Design Studio che ha sviluppato progetti per diverse aziende. Tra esse Abet Laminati, Ballarini, Casamania, COOP, Desalto, Flou, Foscarini, Normann Copenhagen, Olivetti, Palomar, Pedrali, Pircher, Vibram, Victorinox Swiss Army. ( www.fioravanti.eu)
Federica Capoduri. (Certaldo - Firenze, 1983) Laureata in Disegno Industriale alla Facoltà di Architettura di Firenze dopo il diploma nella sezione Architettura dell’ Istituto d’Arte di Siena, nel 2006. Contemporaneamente agli studi universitari si interessa al mondo editoriale e giornalistico, scrivendo di design e architettura per testate e riviste di settore e inizia l’ininterrotta collaborazione con il portale sul design www.IdeaMagazine.net dove pubblica articoli, recensioni, report sul Salone del Mobile di Milano e soprattutto interviste a professionisti italiani e internazionali. Nel 2008 consegue il Master in Editoria promosso dalla Regione Toscana che gli permette di lavorare nella redazione e nel reparto grafico della storica casa editrice d’arte Skira di Milano. Attualmente lavora come freelance nel campo editoriale; recentemente ha collaborato con DNA Editrice per la rivista AND Rivista di architetture, città e architetti e con ADI - Associazione per il Disegno Industriale per il volume Italian Design Today. Ha da poco concluso il contributo alla preparazione grafica della rivista scientifica Techne - Journal of Technology for Architecture and Environment.
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febbraio 2013 Certaldo / Roma |
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