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 L'ASSOLUTO DELLE PICCOLE COSE NEL DESIGN DEL (VACANTE) DISINCANTO
 Intervista a Emanuele Magini

Emanuele MaginiDesigner ironico e sorprendente, capace di attenzioni progettuali acute ed efficaci almeno quanto appare pronto a divertire – e divertirsi – con «ibridazioni», calembour e giochi di prestigio funzionali degni di Ulian e Santachiara, Emanuele Magini ha raccolto in questi anni un crescente consenso trasversale che l'ha condotto a ottenere numerosi e prestigiosi riconoscimenti, tra cui il recentissimo «Premio dei Premi» assegnato dalla Presidenza della Repubblica. Dal suo design emana un sentore inconfondibilmente nostalgico e affettuoso che promana anche, se non soprattutto, dal felice connubio di sensibilità e attenzioni creative, tanto lungimiranti quanto disposte al sogno e un imprinting territoriale rigoroso, lucido e prudente altrettanto forte e potente. Più di altri coetanei, Magini sembra in grado di connettere convintamente la spazialità talvolta angusta e stucchevolmente soffocante del furniture «metropolitano» con l'universo del plein air, rievocato, dedotto, e comunque presente fin dai ricordi d'infanzia – indifferentemente la spiaggia estiva, l'amaca Disney o lo squarcio celeste sovrastante il recinto dell'abbazia di San Galgano. Sedimentazioni mnemoniche ed esiti oggettuali che fanno pensare anche a certo cinema argutamente stralunato del passato. Visti nell'insieme gran parte dei progetti di Emanuele Magini non sfigurerebbero nelle pellicole di Monsieur Hulot, in particolare per la quasi naturale capacità del designer aretino d'intendere l'outdoor e l'indoor come inscindibili tensioni di un progetto che – al pari di quanto svolto dal segno saussuriano nei riguardi di significato e significante – riunisce due facce di uno stesso foglio legate indissociabilmente da una relazione arbitraria, parziale, impermanente, ma pur sempre condivisibile, almeno per un tratto più o meno breve di strada. E ogni volta narrabile da un ulteriore point de vue, come in un romanzo polifonico dall'intreccio seriamente divertente.


 Umberto Rovelli:  Non essendo forse ancora conosciutissimo dai più vorrei che, in prima battuta, facessi una sintetica presentazione della tua pur breve – essendo nato ad Arezzo nel 1977 – ma intensa vicenda sia biografica che progettuale. Magari inserendo in questa sorta di autoritratto anche le eventuali idee fisse, ossessioni formali e/o attenzioni morbose che sovente vengono definite col termine un po' hard di filosofia progettuale.

 Emanuele Magini:  Nel 2003 ho partecipato alla undicesima Biennale Giovani Artisti del Mediterraneo di Atene. Dopo aver completato gli studi alla Bezalel Academy di Gerusalemme, mi sono laureato in Disegno industriale al Politecnico di Milano con una tesi sulla semiotica delle vacanze.
Ho lavorato presso numerosi studi di architettura e design come Albera Monti Associati e Studio Rotella occupandomi di progetti nazionali e internazionali per clienti tra i quali: Casinò di Campione d'Italia, Acqua Valverde, Campari, Banca Sella, Citroën. Mi sono occupato di scenografia e set design collaborando con Disney Italia e ho insegnato presso isituti privati modellazione tridimensionale computerizzata.
Nel 2009 ho vinto il concorso Promosedia, l'anno successivo il concorso Il Rame e la Casa promosso dall'Istituto Italiano del Rame. Negli anni successivi ho ottenuto il premio Good Design del Museo di Architettura e Design di Chicago (2012) e l'iF product design award (2013). Sosia, progettato per l'azienda Campeggi, è stato inserito nell'ADI Design Index 2012, selezione per il Compasso d'Oro ADI. Nel giugno di quest'anno (2013) ho ricevuto dalla Presidenza della Repubblica, il Premio Nazionale per l'Innovazione conosciuto anche come «Premio dei Premi».
Nel 2010 ho aperto il Magini Design Studio. Attualmente sono «cultore della materia» presso il Politecnico di Milano, collaboro e ho collaborato con numerose aziende tra cui: Heineken, Seletti e Campeggi, Bormioli Rocco, Present Time e Fiera di Verona.

 Umberto Rovelli:  Devo arguire che è intorno alla nozione di «vacanza» – da intendersi, forse, come tempo dedicato alla cura di sé – che il tuo progetto si avvia, prende corpo e si concretizza in proposta per il mercato?

 Emanuele Magini:  Beh, la vacanza è un tempo magico, sospeso, pieno di aspettative, di sogni e desideri, o almeno questa è l'immagine della vacanza nel nostro immaginario collettivo.
Per certi versi, credo che in tutti i miei progetti ci sia un po' di vacanza (dal latino vacare: essere vuoto), intesa come mancanza e rifiuto dell'ordinario e della routine.
C'è la ricerca di un «altrove», uno scarto, forse talvolta un «ripiegarsi» del tempo su sé stesso e talaltra un abbeverarsi all'esterno che diventa occasione di «ripensamento», riconsiderazione in altri termini del medesimo tema e argomento con traiettorie inaspettate, divertenti e sorprendenti: la volontà di dare materia e sostanza a un mondo parallelo leggero e ironico, rifugio e ristoro per fantasia e piacere.

 Umberto Rovelli:  Intervistato da Vanni Pasca, un nomade del progetto di origine toscane come AG Fronzoni affermava convintamente che la sua «appartenenza a un filone razionalista» veniva «da lontano», aggiungendo: «Io sono nato a Pistoia, porto dentro di me quella cultura razionale di cui il Rinascimento era intriso. Perciò amo il razionalismo nell’architettura e nell’arte del Novecento. Ho guardato al lavoro dei principali artisti del secolo, tanti anni fa riuscii ad avere documenti delle avanguardie russe, di Malevitch. Ho guardato a Terragni, a Mies, ma anche alla architettura essenziale e povera del medioevo. Per povero intendo il minor impiego di materiali, di tecnologie, un costo il più basso possibile. Ma mi ha sempre affascinato anche l’essenzialità giapponese, l’eliminazione di tutto per ottenere ambienti liberi dalle suppellettili, dove esiste solo l’architettura e lo spazio corrisponde alle esigenze del vivere»  00 . Mutatis mutandis, in qualità di designer aretino déraciné da oltre, credo, un decennio, quanto e cosa ritieni che significhi la «toscanità» per chi si occupa di progettazione oggi. Voglio dire, ritieni di cogliere in ciò che fai oggi anche una deriva di matrice territoriale oppure il tuo talento e le tue capacità d’innovazione sono debitrici proprio della cesura che hai rivolto ad un passato e ad un ambiente troppo «ingombrante»?

 Emanuele Magini:  Non sono mai stato particolarmente attratto dalle dispute sullo stile, sul formalismo, amo una certa pulizia del disegno degli oggetti. Ma la semplicità come obiettivo di una ricerca di sottrazione del superfluo e non come facile adesione acritica a una moda.
Ritengo comunque che certi caratteri della mia terra abbiano segnato il mio immaginario estetico e formale.
Ho passato l’adolescenza in Vespa su e giù per le dolci colline della mia terra, che sono ancora convinto sia una delle più belle che abbia mai visto.
Ho vissuto per anni a meno di cento metri dalla Chiesa di San Francesco ad Arezzo, dove è rappresentata, a mio avviso, una delle opere più belle di tutta la storia dell’arte: La Leggenda della Vera Croce, di Piero della Francesca.
La cattedrale di San Galgano, ha esercitato su di me un forte fascino per molto tempo.
Inoltre, credo che nel mio lavoro sia comunque sempre rintracciabile una certa irriverente ironia, tratto generalmente riconosciuto come denotante il linguaggio e la cultura toscana.

 Umberto Rovelli:  Presentando il lavoro del tuo coetaneo Francesco Faccin, Marco Romanelli  01  afferma che «ogni progettista corrisponde ad un paesaggio. Paesaggio che, nel tempo della sua vita creativa, il progettista percorre in lungo e in largo, salendo sulle vette e immergendosi negli abissi». Sebbene vi sia un fascino innegabile nella dicotomia proposta in quella sede da Romanelli, guardando i tuoi lavori, devo cedere le armi. Probabilmente per un mio limite, non riesco infatti ad annoverarti né fra i designer «affluenti» e «influenti» che «percorrono infinite autostrade, larghe e sicure, un po’ noiose, senza aver mai voglia di svicolare, posteggiare il bolide e continuare a piedi su un sentierino infido che è improvvisamente comparso in mezzo alle ginestre» né fra i designer di «frontiera» che avendo «scelto il progetto come sfida» s’inerpicano «lungo quei percorsi in cui si cerca, con fatica, e poi si deve spiegare ciò che si è trovato, un fiore spinoso, a degli altri che si aspettano almeno almeno una cassetta di funghi porcini!». E forse non riesco a collocarti su nessuno dei due fronti perché una buona parte della tua generazione non sembra per nulla incline né all’inabissamento né alle scalate in solitaria quanto piuttosto ben disposta a stare nella media res contemporanea, provando gusto anche a confrontarsi con un mercato ormai definitivamente polifonico e senza sfuggire le possibili «contaminazioni» tra progetto e comunicazione, tra brand consolidati e autoproduzione. Ciò che, in buona sostanza, mi sembra emerga dal tuo lavoro è che oggi stia diventando sempre più velleitario pretendere per il progetto di design un’autonomia critica e disciplinare in grado di svincolarlo dai viluppi inestricabili col mercato. E ciò sia perché storicamente il designer è da sempre un privilegiato interlocutore – o comunque un fronteggiatore – dell’affarismo mercantile, sia perché, oggi, le attuali ramificazioni e intrecci dei diversi mercati a disposizione del designer sembrano consegnargli un potenziale di differenziazione almeno pari se non superiore a quello di omologazione. Qual è la tua idea di relazione fra aspirazioni personali e mercato? Il tuo desiderio di auto-produrre da cosa nasce e come è evoluto in questi anni il senso che attribuisci a questa pratica?

 Emanuele Magini:  Credo che il designer sia per forza di cose un portatore di innovazione, quindi per questo necessariamente dotato di autonomia critica. Allo stesso tempo non ritengo che per definizione si debba vedere nel mercato un luogo corrotto, da cui elevarsi e sottrarsi.
Il designer disegna oggetti per il consumo, se non è nel mercato come può rivolgersi al pubblico?
Penso che sul designer vigano molti stereotipi che troppi colleghi, specie i più famosi, contribuiscono ad alimentare. Uno di questi è che il design riguarda solo i designer.
Il buon design è il frutto di relazioni multiple, coinvolge specificità professionali differenti e competenze complementari, in cui il designer occupa forse il posto del solista più visibile, ma che senza il resto dell'orchestra perde di efficacia.
Ogni nuovo progetto si inserisce in una specifica realtà produttiva e cultura d'impresa, se queste non supportano la qualità del progetto, l'oggetto diventa soltanto un riempitivo di riviste patinate.
L'autoproduzione a mio avviso nasce come risultante di dinamiche distinte, ma convergenti.
Da un lato c'è la necessità di superare un sistema produttivo e distributivo, strutturato da una logica ancora prettamente fordista, attraverso le nuove forze e possibilità scaturite dalle nuove possibilità tecnologiche: nello specifico, le nuove macchine di autoproduzione (3D printing) e la nuova vita della rete (web 2.0) aprono a mio avviso scenari nuovi e inaspettati.
D'altra parte è anche vero che l'autoproduzione può essere intesa come il naturale «sfogo» delle mutazioni in atto nel mondo del design: la logica conseguenza di un'inarrestabile crescita del numero di designer in un contesto industriale-produttivo avvitato da tempo in una crisi sistemica.

 Umberto Rovelli:  Uno dei temi focali oggi mi sembra sia il fatto che l’attuale generazione di designer 30enni – di cui fai parte insieme, ad esempio, a Odo Fioravanti, Brian Sironi, Luca Nichetto – sta proponendo «forme di vita» autorali sempre più sensibilmente distinte se non addirittura di nuova specie rispetto ai decenni precedenti. Quasi che, in questo inizio di millennio, si fosse compiuta una sorta di evoluzione antropologica del designer che oggi – magari proprio sfruttando le notevoli valenze inclusive della globalizzazione – tende sempre più convintamente a far sì che il proprio personale feeling progettuale s’irreticoli in modo virale, ingenerando connubi inconsueti fra originalità esistenziali e prospettive di mercato emergenti. Si assiste cioè al consolidarsi una nuova specie di progettisti – che, forse, si riconosce più nella parabola progettuale aggregante, polimorfa ed inclusiva di Giulio Iacchetti che in quella «ascetica» di Paolo Ulian – capaci di muoversi veloci (per riprendere il plot di Romanelli) su percorsi di «mezzacosta» in modo da ritrovarsi sempre alla giusta altezza e distanza sia per distinguersi dalla produzione corrente sia per anticipare le domande di utenze ancora in fase di formazione. Autori, è pur vero, per i quali talvolta sembra assai facile tradurre e rivalutare anche mere opzioni di dettaglio al rango di «scenari», ma che, non intendendendo prima facie rivoluzionare il mercato, sembrano perlomeno in grado di ottenere concrete eco distributive. E di queste si accontentano per un sano pragmatismo che è, forse, una delle meno valutate tra le qualità ritenute essenziali per svolgere la professione. Piccole idee e quinte progettuali che se, probabilmente, non hanno la pretesa etica di sovvertire il regime economico, pure contribuiscono a offrirne una versione meno truce e irrelata nei confronti sia del singolo che delle nuove generazioni. E non è detto che tale diminutio di tematiche, obiettivi, senso di sé e del proprio ruolo, non si riveli, nel lungo periodo, più efficace e ricco di ripercussioni rispetto a più avvertite, e talvolta utopiche, etiche di progetto in grado perlopiù di colpire fasce numericamente inconsistenti di pubblico molto colto.
A mio avviso, nel profondo di questi nuovi autori, c’è piuttosto una grande flessibilità mentale che talvolta colpisce noi, generazione anta, perché quanto ci appare non irregimentato secondo canoni altamente selettivi siamo portati a stigmatizzarlo come superficiale. Per molti designer 30enni fare questo mestiere significa invece abbassare di molto la soglia dei pregiudizi personali, a partire cioè da un altissimo tasso di de-ideologizzazione facendolo entrare in sinergia con un desiderio altrettanto forte di efficacia, di tangibilità, fors’anche di rischio personale, voglia di mettersi in gioco. Cercando di appropriarsi e provare a riavvolgere e annodare qualche filo pendente di una trama destrutturata, estesissima, delle cui origini non solo si è perduta ogni traccia ma nemmeno si ritiene un disvalore la perdita...
Ti senti di «appartenere» ad una generazione in qualche modo differente da quelle apparse nel secolo scorso? Avverti un certo imbarazzo a evocare l’etica nel progetto? Che significato dai alla parola mestiere? Tra i senior Iacchetti, Ulian e Novembre (o altri ancora), a chi credi di dovere di più per la tua attività?

 Emanuele Magini:  È difficile e a tratti è anche comico parlare nel nostro paese del mestiere del designer. Da noi, patria del design, lo stato riconosce la laurea in disegno industriale, ma la nostra professione non ha alcuna garanzia e tutela giuridica. Non dico di guardare a quegli Stati dove i designer vengono addirittura sovvenzionati (vedi il caso dell'Olanda), ma solo di confrontare, ad esempio, il peso politico e il potere reale di tutela dei propri interessi che hanno certe lobby (per esempio i tassisti) rispetto ai designer. Se poi si paragonano le forze contrattuali di questi gruppi con ciò che ognuno di essi offre come servizio alle nostre comunità, viene veramente da ridere...
In questo stato di cose, il designer è sempre più diventato un lavoro diffuso e globalizzato, dove un certo «spirito pragmatico» (come dici tu) non è una scelta, ma una necessità. L’etica nel progetto, poi!
A volte questa questione mi sembra come certi prodotti, divenuti di moda, che contengono già nella loro definizione, la giustificazione assolutoria: vedi i dolci dietetici e la birra senz’alcool.
A mio avviso il design sta alla produzione come la letteratura sta allo scrivere: si è mai chiesto nessuno se un libro o una storia fossero più o meno etici?
Il design – sia come attività che come «mestiere» – nasce con la produzione industriale e il sistema consumistico. Se vogliamo interrogarci su un piano così alto, come quello della morale, forse bisognerebbe andare a vedere quanto le modalità su cui si è strutturata e ordinata la società siano giuste ed etiche.
Intendiamoci, detto questo, io detesto il superfluo, ma allo stesso tempo trovo riduttivo pensare al problema guardandolo dal basso. Il design è solo la parte finale, quella più evidente, di un sistema socio-economico basato sui consumi, che può essere riformato solo partendo dalla sua complessità.
Per fare un esempio trovo semplicistico e fuorviante, spacciare come sensibilità ambientale ed eco-sostenibilità, la produzione di posate «usa e getta», ma biodegradabili.
Infine, riguardo a quel che provo nei confronti di chi ha qualche anno in più di esperienza lavorativa, tutti i professionisti che hai citato sono dei punti di riferimento per me, e io ho passato ore, su internet o sui libri a studiare i loro progetti.
Se però dovessi fare un solo nome, riconosco nel lavoro di Ulian, una misura, una poesia e una bellezza davvero ammirevoli.

 Umberto Rovelli:  Permettimi di chiosare il tuo ampiamente condivisibile paragone design/letteratura, segnalando che, ad esempio, i mancati riconoscimenti dei Nobel a figure come Jorge Luis Borges o Philip Roth (per tacere dell'assai più comprensibile censura nei confronti di Louis-Ferdinand Céline) si devono quasi esclusivamente a valutazioni extra-estetiche dei giurati svedesi...

 Emanuele Magini:  Certo, certo. Ma il fatto che queste considerazioni abbiano un peso e un valore nel determinare un premio così importante non significa che tale atteggiamento sia da avvallare.

 Umberto Rovelli:  Sono pienamente d'accordo. Ma veniamo a concretizzare in dettaglio i connotati del designer inteso come homo novus progettante nei confronti del produrre e immettere sul mercato un’idea progettuale. Mi sembra che da questo punto di vista tu abbia praticato almeno tre modalità a disposizione oggi: autoprodurre, partecipare a concorsi, proporsi ad una factory. Ovvero, nell’ordine, 1) l’esperienza della collezione Primo Aprile; 2) i progetti per partecipare a Sun.Lab, Promosedia, Zanotta Cristalplant, La Maniglia di Domani e, soprattutto, Il Rame e la Casa; 3) le proposte per Garagedesign. Partiamo con Primo Aprile che, al momento, ha avuto qualche defezione per la differente successiva scelta distributiva operata per Lazy Football. Tutta la collezione corrisponde egregiamente a quanto sostenuto nella home-page del web a lei dedicato (www.primoaprile.it), sembra cioè offrire «quel surplus semantico che ne denota la cifra stilistica e il carattere identitario, a riprova che di inevitabile, nell’ovvio e nel sottinteso, c’è solo un’abdicazione della libertà e dell’intelligenza creativa». I più esaltanti – e plausibili – sono, a mio avviso, L’erba del vicino è sempre più verde e Prima del primo, mentre i più «toscani» – sebbene la tua rivisitazione del pallone in cuoio non sia certo aliena al proverbiale «spirito» regionale – sono forse Brunello, Glasses time e Peace smoking – quest’ultimo quasi monicelliano per l’amara intensità ironica  02 . Mi piacerebbe conoscere quali sono stati i motivi che ti hanno indotto a fare questa scelta, quale percentuale di tempo e fatica ti sei trovato alla fine a dedicare all'ideazione, alla produzione, alla comunicazione, ecc.

 Emanuele Magini:  Se vuoi fare questo lavoro, se hai voglia e passione, vuoi vedere i tuoi progetti realizzati. Primo Aprile è stato il contenitore necessario e naturale per raccoglierli e offrir loro il giusto contesto.
Ovviamente io sono molto più propenso ed affine alla fase progettuale e realizzativa, ma anche la fase di promozione, comunicazione e commercializzazione ha alcuni aspetti interessanti che mi stanno appassionando.

 Umberto Rovelli:  Credi che molto del futuro del design e del tuo stesso futuro consista nell’autoproduzione o lo ritieni una sorta di rito iniziatico di cui è bene non abusare?

 Emanuele Magini:  Credo che portare avanti l’autoproduzione in maniera seria ed efficace significhi andare ben oltre il lavoro del designer comunemente inteso.
C’è da trasformarsi in una micro azienda ovvero assolvere, in scala ridotta ma comunque in toto, a tutte le funzioni necessarie ad una piccola impresa: produzione, comunicazione, promozione, commercializzazione.
Per ora mi sembra una cosa al di là delle mie possibilità, ma, ripeto, per ora...

 Umberto Rovelli:  Ho cominciato a provare un certo interesse per il tuo lavoro vedendo per la prima volta la brochure informativa del concorso Il Rame e la Casa del 2010. Il tuo progetto Willy – con una sintesi grafico-plastica davvero invidiabile – proponeva un’idea di termo-arredo ad un tempo molto immediata, teneramente domestica eppure decisamente non convenzionale, dolcemente straniante. Trovare un concept che unisse proposta d’arredo, funzionalità e plasticità scultorea in un solo progetto mi è sembrato il segno di una personalità non comune. Interessanti e comunque apprezzabili sono anche i tuoi Oscar – portaombrelli+svuotatasche basculante presentato al Zanotta Cristalplant nel 2010 –, Simple chair – vincitrice a Promosedia 2009 –, Spring – maniglia+molletta secondo premio a La Maniglia di Domani del 2010. Potresti descrivermi l’iter ideativo di questi quattro progetti, le possibilità o meno che ti sono state offerte successivamente di farne prodotti concreti e quali benefici – esperienza, rinomanza, contatti con aziende, ecc. – hai tratto, sia a breve che a medio termine, da queste partecipazioni?

 Emanuele Magini:  All’inizio ho partecipato a molti concorsi, e se non ne avessi vinto qualcuno, come quelli da te citati, non so se continuerei a fare questo lavoro.
Sono stati una grande iniezione di fiducia e una sorta di riconoscimento della bontà delle mie idee.
Simple chair è stato il primo concorso di un certo rilievo, che ho vinto. Disegnare una sedia è un classico per un designer: ho pensato a una linea singola, in legno curvato, che senza soluzione di continuità ne definisse corpo e struttura.
Spring è una maniglia che prende spunto dall’idea di dare una possibilità comunicativa e relazionale alla porta. Infatti la parte da impugnare si presenta come una molletta, dove è possibile appendere un messaggio, un fiore, o qualsiasi altra cosa.
Willy nasce dal vivere in un bilocale a Milano. Se c’è una cosa che mi fa tristezza d’inverno è la visione dello stendi-biancheria in corridoio o al bagno. Così ho pensato che se invece questo stendi-biancheria fosse stato proiettato a muro, assolvendo anche la funzione di calorifero, allora sarebbe stato molto più divertente!
Oscar infine è la materializzazione di un desiderio: quello di essere accolto, una volta rientrato a casa da qualcuno che mi libera di tutti quegli oggetti che spesso mi occupano le mani e mi ingombrano le tasche.

 Umberto Rovelli:  Quanto del tuo attuale consenso e attenzione ritieni provenga dalla complessiva attività concorsuale?

 Emanuele Magini:  All’inizio, come ho già detto, quando ho iniziato a lavorare come freelance, ho partecipato a molti concorsi, non avendo clienti-committenti, era l’unico modo per avere un brief.
È stato un modo molto utile per stimolare e liberare creatività e per mettersi alla prova, per misurare le proprie idee e capire come venivano valutate.
Sicuramente i concorsi vinti e i progetti nati da quelle partecipazioni sono stati la condizione necessaria per raggiungere quel minimo di credibilità per presentarsi e proporsi ad aziende e brand.

 Umberto Rovelli:  Infine il rapporto con la factory Garagedesign  03 . Ci arrivi per gradi, in quanto i due progetti che proponi a Garagedesign, sono già prodotti della tua collezione Primo Aprile. Da qui si genera un po’ di confusione, forse naturale per progetti che funzionano e per contatti che evolvono. Fino a qualche mese fa (maggio 2012), Alessandro Molinari nel presentare il suo atelier di produzione e il webshop di oggetti di design a Nuovi Italians crescono coordinato da Beppe Severgnini, segnala la tua sedia Lazy Football come uno dei successi di Garagedesign  04 . Ma per Garagedesign è una sorta di contrappasso perché all’epoca i diritti di produzione – che durano due anni – erano già trascorsi e tu avevi ritenuto più adeguato far produrre industrialmente Lazy Football da Campeggi con la quale hai attivato una collaborazione che, al momento, ti ha portato ad essere inserito nell’ADI Design Index. Dopo tante storie di progetti scippati ai giovani designer da aziende occhiute sembra che le parti si siano addirittura invertite. Merito certo di averci creduto, ma anche di una notevole capacità manageriale che, non a caso, ti vede fondare nel 2010 il tuo Magini Design Studio. Prima di parlare anche del letto Latin Lover – altro prodotto passato dalla collezione Primo Aprile a Garagedesign – potresti confermarmi che le tempistiche sono state effettivamente come le ho appena descritte?

 Emanuele Magini:  Sì, Lazy Football, nasce anche questa da un bando-concorso indetto da Garagedesign e dopo due anni è trasmigrata nella collezione Campeggi.

 Umberto Rovelli:  Potresti inoltre dirmi come vada considerato – ironico, nostalgico, polifunzionale – questo progetto di sedia «esuberante» all'interno del tuo percorso?

 Emanuele Magini:  Hai ragione è un progetto nostalgico, perchè nasce dal ricordo di quando ero piccolo, spesso giocavo a pallone in casa, adottando le sedie del soggiorno, come porte. Diventato adulto me le son fatte ad hoc!

 Umberto Rovelli:  Ancora nel webshop di Garagedesign troviamo un altro tuo progetto tanto ironico quanto forse discutibile come il letto Latin Lover. E dico discutibile perché tutto il progetto si basa su un'idea, a mio avviso, molto esile, fors'anche pretestuosa, poco partecipata. Ma anche in questo progetto, forse meno riuscito, non posso fare a meno di apprezzare almeno due punti: 1) l'utilizzo connotativo di un'oggetto che fa parte delle non molte icone intergenerazionali: il pallottoliere; 2) l'immediatezza della connessione fra mondo infantile e dongiovannismo. Trovo anzi l'immediata leggibilità dei tuoi progetti sia uno dei punti di forza di tutto il tuo lavoro.

 Emanuele Magini:  Nel mio modo di intendere il design, io cerco sempre di generare associazioni nuove, piccole storie, che magari strappino anche un sorriso.
In più ritengo che il progetto perfetto è quello che si esprime nella sua più materiale immediatezza. Metafore, citazioni, riferimenti più o meno colti, sono sempre mezzi (legittimi) ma che spesso a mio avviso sono funzionali ad allungare un brodo, spesso insipido.
Sebbene abbia più volte affermato che la fonte d’ispirazione del letto è stata l'abitudine di un mio amico che era solito segnare sul muro, con del nastro adesivo, le conquiste amorose, Latin Lover nasce in un momento in cui il nostro amato paese, non faceva altro che parlare delle avventure erotiche del suo Presidente del Consiglio. Così ho pensato a questa associazione divertente, per stimolare anche alla riflessione di come, a mio avviso, dietro al nostro machismo mediterraneo e latino si celi una visione del sesso infantile e autoreferenziale.

 Umberto Rovelli:  Ricollegandomi, almeno in parte, alla precedente questione, credo che il pathos biografico sia una delle energie migliori per alimentare i buoni progetti – so per certo che ciò è accaduto anche per uno dei tuoi progetti più ameni Glasses time. L’attenzione data a particolari comportamenti riscontrati in noi o negli altri in determinate occasioni della nostra vita, può essere di grande stimolo per «dare il la» ad un nuovo progetto. In certi casi anche riflettendo sulle nostre apprensioni, le nostre paure. Nel 2006, Antonio Cos mi segnalò che una sua «preoccupazione è di dover traslocare. Solo all’idea mi vengono i brividi. Quando penso ad un mobile – mi viene automatico – diventa quasi subito un mobile-mobile, proprio pensando al fatto di dover cambiare posto o disposizione di arredo». Mi chiedevo se qualcosa del genere è scattato in te con quel progetto di «proto-soggiorno» che è Sosia, presentato da Campeggi al Salone del Mobile 2012.

 Emanuele Magini:  Lo spunto per il progetto di Sosia nasce da un’esigenza molto personale. La mia casa a Milano non è molto grande; quando mi è capitato di dare ospitalità ad amici e parenti, spesso ho pensato che avrei dovuto trovare una soluzione innovativa. Così è nato Sosia: un «micro-salotto» che all’occorrenza può facilmente trasformarsi in accogliente letto per ospiti. Quando ho visto il primo prototipo, ho iniziato a giocarci e ho scoperto che alla fine in realtà il letto e le due sedute erano solo due delle molte configurazioni dell’oggetto. Sosia è un progetto che nasce per un ambiente domestico, ma forse potrebbe essere una soluzione pratica, semplice e divertente anche in molti spazi pubblici, come ospedali, stazioni, aeroporti, alberghi...

 Umberto Rovelli:  Parlare di oggetti ibridi e mutanti, configurabili secondo le esigenze, pone in evidenza anche il ruolo del giunto nell’iter progettuale e come esso connoti il progetto stesso. Con Sosia mi sembra tu abbia individuato nella cerniera zip un valido assistente di progetto per liberare valenze d’uso. Una scelta «povera» – di anonimato paleoindustriale potremmo dire – nella quale sarebbe lecito rilevare anche un potenziale limite: e cioè che, ad un appoccio teso ad ibridare più funzioni, si associ una quasi obbligata laconicità formale. Il sobrio ritrarsi della retorica – e della tecno-fattura – di fronte al crescere dei contenuti – e delle idee. Come se un sano atteggiamento operativo e connettivo circa gli usi consentiti costringesse a porre fra parentesi la questione dello stile. Questione, a quanto pare, molto «calda» se, proprio il 29 ottobre 2012 nella Sala conferenze di Palazzo Reale in Piazza Duomo a Milano, il titolo dell’incontro era Alla ricerca di uno Stile Milano nel Design autoprodotto. Ma se da un lato Alessandro Mendini ha recentemente tenuto a sottolineare la mancanza di uno segno comune, di uno stile condiviso nel design autorale di qualità a Milano, d’altra parte ad aprile 2012, la prima mostra presso lo Studio Museo Achille Castiglioni – dedicata a Lorenzo Damiani, designer autoproduttore e ibridatore per eccellenza – s’intitolava proprio, fors’anche con una punta di orgoglio autarchico, Senza stile. Mi sembra che una consistente parte di addetti ai lavori fatichi a comprendere sia l’attuale permeabilità delle 4 componenti defuschiane (progetto, produzione distribuzione, consumo) sia il continuo e progressivo mutare dei reciproci rapporti di forza fra esse. Ma anche come il progetto possa svolgere, in ognuno degli ambiti, un ruolo decisivo e mutante. Per fare un esempio oggi un designer può consultare il medesimo sito web di una «social product development company» come Quirky (www.quirky.com): a) per confrontarsi; b) per farsi venire idee; c) per comprare; d) per cogliere l’occasione di produrre. Questa apparente indistinzione del ruolo che un medesimo utente può avere nei confronti di un’entità digital-connettiva globale non può, a mio avviso, non ripercuotersi sulle «forme» distintive di questo «fare progetto» – anche a domicilio – rispetto al produrre più tradizionalmente legato al territorio e ai «luoghi» del lavoro. E forse non è un caso che l’«anonimato» stilistico sia la nota saliente di una parte consistente del progetto, apparentemente diffuso ma concretamente «appartato», di cui è intessuto il social design di questi ultimissimi anni  05 . Che opinione hai sul rilievo e sul ruolo della nozione di «stile» all’interno del progetto contemporaneo?

 Emanuele Magini:  Il progetto a mio avviso non è una questione di stile, ma di efficacia comunicativa, di capacità di aderire e mutare l’immaginario collettivo, di tradurre le piccole o grandi pulsioni, fobie, passioni, necessità, paure che scorrono sotto la società e di renderle reali con un oggetto.
C’è da dire che non amo il formalismo, il neo barocco tecnofilo, quello delle forme fluide e contorte, ma allo stesso tempo credo che dietro molto minimalismo ci sia una sostanziale povertà espressiva.

 Umberto Rovelli:  Tornando all’attività concorsuale, per il Sun.Lab hai presentato due progetti forse non immediatamente accattivanti ma di sicuro interesse, specie in quanto rivolti a pratiche e funzioni eminentemente extra-domestiche. Parlo di Grasshopper, rasaerba a pedali che simula le foggie ludiche di un triciclo e Belvedere, forse il tuo primo, assai efficace, intervento progettuale nel campo dello street furniture. Come in molti tuoi progetti si avverte dietro queste proposte un sostrato biografico-esperienziale abbastanza profondo che aiuta ad orizzontare positivamente il giudizio e la comprensione di lavori che sono sì qualificabili come «ironici», ma lo sono in modo amorevolmente pratico e garbato. Con Belvedere poi abbiamo una ricerca di semplificazione del giunto che fa di questa panchina schienale reclinabile un interessante strumento di riappropriazione del plein air e della vita all’aperto, che, occorre dirlo, costituisce il grande «buco nero» della progettazione di design in Italia. Anche in questo caso oltre ad una descrizione dell’antefatto ideativo, mi piacerebbe sapere quali difficoltà hai riscontrato nella realizzazione dei prototipi e se in hai in vista qualche tangibile possibilità di produzione seriale per questi due prodotti.

 Emanuele Magini:  Grasshopper è uno dei progetti cui sono più affezionato. È stato, credo, il primo mio progetto che ha vinto un concorso (il Sun.Lab, appunto).
La partecipazione però era legata alla realizzazione del prototipo in scala reale.
La costruzione di questo grosso e buffo triciclo tagliaerba a pedali, fu per me un'opera titanica, che ho realizzato da solo nella cantina della casa dei miei genitori.
Ricordo le visite giornaliere di mio padre, e il suo sguardo dubbioso di fronte alla sfida che mi ero posto.
L’idea di questo progetto era nata proprio guardando la sua espressione soddisfatta, guidando il trattorino tagliaerba, su e giù per i dossi del giardino.
Questa semplice felicità, genuina e sincera, come quella di un bambino, unita ai miei continui inviti a fare sport, ha fatto nascere l’idea di un grande giocattolo per adulti, che invita a vivere l’outdoor in modo diretto e coinvolgente.
Con Belvedere invece ho inteso la panchina da strada come strumento conoscitivo dell’ambiente urbano, ripensando anche a certi lavori degli anni ‘60 di Ugo La Pietra ho ritenuto che permettendo di variare l’inclinazione dello schienale della panchina, si offrisse all’utente prospettive differenti, e la possibilità di osservare e percepire il mondo circostante in modo nuovo e inusuale.
Purtroppo non sono riuscito ancora a dare un seguito produttivo a questi due progetti, ma la fiducia non deve mai mancare...

 Umberto Rovelli:  Più di recente ti sei interessato ad un progetto che non voglio sottovalutare. È quasi il più «serioso» dei tuoi progetti e vede – come è segnalato anche sul tuo web (www.emanuelemagini.it) – «il materiale come motore d’innovazione». Sto parlando di Zip, ovvero una proposta di ridefinizione di «tipologia di prodotto, il cestino portarifiuti (...), attraverso un design insolito ed innovativo, che include il cliente finale nel processo di realizzazione del prodotto». Il materiale, proveniente dal «riutilizzo di vecchi copertoni per autoveicoli», trova una sua applicazione ideale proprio in «cestini per la raccolta differenziata» che si aprono e chiudono tramite un semplice movimento di cerniera zip con «evidenti vantaggi in termini economici, sociali ed ambientali». In questo caso vorrei sapere da te a che punto della «ricerca tecnologica sviluppata da Carretta Tecnology in sinergia con Sartori Ambiente» sei stato contattato e che tipo di relazioni hai intrattenuto con le aziende.

 Emanuele Magini:  Anche Zip, nasce come frutto di una specie di concorso.
Il Politecnico di Milano, in sinergia con la Provincia Autonoma di Trento selezionava alcuni designer da mettere in contatto con alcune realtà produttive trentine, per sviluppare nuovi progetti.
Una volta selezionato mi è stata associata l’azienda Sartori Ambiente che da anni è attiva nel mondo della raccolta differenziata, producendo raccoglitori e contenitori, per amministrazioni e municipalità. Visitando l’azienda, mi è stato presentato questo progetto di ricerca sui materiali, che prevedeva il riutilizzo di copertoni usati. Ho pensato quindi di perseguire questa strada dell’innovazione, cercando un prodotto che anche da un punto di vista formale e strutturale mantenesse forte l'impronta di rottura e novità.
È nato un cestino di carattere quasi «sartoriale» che si presenta morbido, e che possiede quel minimo di dignità estetica per far sì che non vada nascosto in un angolo o sotto la scrivania.
Il progetto si completa poi con un packaging, appositamente disegnato, che perseguendo gli obiettivi di eco-sostenibilità già presenti nel materiale adottato, propone il prodotto ripiegato in una elegante shopper in cartone, con evidenti vantaggi economici, sociali ed ambientali per quel che concerne la spedizione e il trasporto.

 Umberto Rovelli:  Vista la tua recente collaborazione con Seletti, colgo l’occasione anche per sottoporti una questione circa lo «stile aziendale». Sono abituato a pensare che l’insieme dei prodotti di una determinata azienda costituisce una sorta di trama volta a disegnare un identikit sia del «paesaggio» domestico sia dell’«attore» di tale paesaggio, ovvero il consumatore tipo. Almeno in parte, la salvaguardia di questa «immagine» complessiva fra persona e paesaggio è stata ed è tuttora all’origine di molti rifiuti da parte di aziende consolidate anche nei riguardi di ottimi progetti. Per ovviare a tale vincolo – che può rivelarsi controproducente per i fatturati – alcune aziende, come Driade ad esempio, palesano la propria offerta in quanto molteplice, pluri-partita. Altre ancora affrontano questo stesso dilemma con la creazione spin-off di nuovi brand. Nel caso di Seletti sembra quasi che la questione non venga nemmeno colta come tale, al punto da farmi apparire la sua produzione un po’ schizofrenica. Se, infatti, da un lato troviamo produzioni che sembrano valorizzare una serialità old-style – ad esempio, la cromatica Pantone Chair, la serie di porta-oggetti impilabili 10 o i contenitori da frigo Hermetic – dall’altro troviamo in catalogo oggetti veramente bizzarri come la sghemba libreria Kenn brutal o addirittura No_body che propone dei contenitori bivalve foggiati sia nelle proporzioni che nelle superfici delle parti coprenti come organi interni di un torso umano (carotide, polmoni, cuore, fegato, rene, pancreas e stomaco). A tuo avviso, anche la nozione di «stile aziendale» è oggi irrilevante?

 Emanuele Magini:  No, non credo che la nozione di stile sia irrilevante per le aziende. I linguaggi adottati sono una delle modalità con cui i brand si esprimono e si denotano al pubblico.
D’altro canto ritengo pure che questo sia solo uno dei vettori di comunicazione: di almeno pari importanza ci sono altri fattori come, per esempio, il prezzo e la distribuzione che determinano l’identità e le modalità di riconoscimento di un marchio. Per questo magari fermarsi allo stile a volte può essere fuorviante.
Inoltre credo che viviamo un contesto molto fluido e dinamico, dove il continuo mutamento di stili e linguaggi mutuato dal mondo della moda, sia diventato un carattere denotante la società dei consumi contemporanea.

 Umberto Rovelli:  Come forse è bene chiarire, è passato qualche tempo da quando la nostra chiaccherata digitale s’è avviata per la prima volta. In questo breve lasso di mesi la tua immagine si è molto consolidata e Campeggi, complice ovviamente il successo di Sosia, sta diventando un partner – tra l’altro con una impronta comunicativa fortemente originale e identitaria – se non fisso un po’ meno mobile per la tua attività. Reduce da questa recente esperienza, ti vorrei chiedere come muta il processo creativo per un designer quando la relazione progettista/imprenditore diviene più certa?

 Emanuele Magini:  Ormai da Campeggi, non dico di essere di casa, ma quasi. Si è instaurato un ottimo rapporto non solo con Claudio Campeggi, che è la mente dell'azienda, ma anche con gran parte di lavoratori e dipendenti.
Aumentando la conoscenza, è molto più facile capirsi e procedere speditamente, una volta definito un territorio comune su cui lavorare.
Ormai credo di sapere abbastanza precisamente se un progetto possa incontrare l'interesse dell'azienda, quindi una volta visualizzata la proposta, se la cosa riceve un parere positivo, procediamo quasi immediatamente con la realizzazione del prototipo.

 Umberto Rovelli:  Per molti prodotti e designer (penso, ad esempio, ai recenti Girella di Lorenzo Damiani, Pisolotta di Denis Santachiara, Concentré de Vie di Matali Crasset) Campeggi è stato ed è, per certi versi, un ideale compagno per insolite avventure domestiche. Dove la voglia di raccontare e sorprendere l’utente – accostando funzioni, rinnovando modi di pensare il non uso degli oggetti, reperendo nuove idee per riporre, contenerli e manterli in potenza all’interno della casa – sembra appartenere ad entrambi, spingendo ogni progettista che si accosta tale azienda a dare il meglio di sé. Personalmente attendo con ansia che Paolo Ulian riesca a collaborare con Campeggi, ma, nel frattempo, vorrei concludere chiedendoti un profilo per gli ultimi tre arredi mutanti che hai pensato per l’azienda comasca. Cominciando da Ipouf in cui, a mio avviso, si percepisce anche il forte anelito a «materializzare» le magie invisibili – e, a volte, inconsistenti – che la tecnologia digitale ormai ci consente e impone...

 Emanuele Magini:  L'avanzamento tecnologico e la digitalizzazione stanno rendendo i nostri oggetti sempre più piccoli e uniformi; la diversità del nostro scenario domestico si riduce, le nostre case vengono sempre più popolate da scatolotte, di varie dimensioni e foggie, ma comunque scatole...
È innegabile che seppur i nostri oggetti tendano a rimpicciolirsi e, in molti casi, a miniaturizzarsi, le nostre misure antropometriche rimangono invece tendenzialmente inalterate.
Ipouf è un tentativo di andare controcorrente, di ragionare per semplificazione invertendo però la tendenza per quel che riguarda le dimensioni.
È un oggetto a suo modo tecnologico (al suo interno è presente un dispositivo per amplificare, con collegamento wireless, l'audio dei nostri smartphone o dei nostri player musicali), ma volutamente perde qualsiasi connotazione hightech, finendo col parlare un linguaggio più morbido, leggero, ludico, rilassato e conviviale.

 Umberto Rovelli:  Con Transformer approfondisci l’interpretazione contemporanea del soggiorno, con un occhio partecipe e, come ormai sappiamo, interessato agli spazi ridotti cui anche il successo lavorativo può obbligarci. Più in particolare, come immagina il futuro della convivialità domestica, un contemporaneo fruitore dell’immensa agorà telematica e degli spesso minuscoli spazi degli appartamenti urbani. Che ruolo ipotizza e presume per i «luoghi della qualità» per il tempo lento e «arioso» del vivere in un ambiente gratificante come le colline toscane? Memoria, riuso, rievocazione, o altro ancora?

 Emanuele Magini:  Sarà un effetto di contrappasso del lavoro che faccio, ma io sogno il vuoto...
A parte le provocazioni credo che porsi un limite quantitativo sia l'unico efficace antidoto al non essere posseduto dalle cose. E sono consapevole che invece il mood che viviamo e ci viene proposto come ideale è all'opposto addirittura ipertrofico: ad esempio, navigando sulla rete, mi è capitato di trovare manuali su come vivere meglio possedendo «solo» cento oggetti: un'enormità!
A mio avviso, il limite pone la scelta e la scelta conferisce valore: che siano memorie, riusi, autoprodotti, cimeli, ricordi, status symbol, autorali o anonimi, ritengo che la cosa importante sia limitare il numero degli oggetti che compongono il nostro panorama domestico. Solo così credo che riusciremo a sconfiggere l'indifferenza e l'estraneità che la bulimia consumistica porta nelle nostre case.

 Umberto Rovelli:  Con un portamento molto inusuale nel panorama delle sedute contemporanee (attualmente c’è forse solo la Shadowy chair realizzata da Tord Boontje con Moroso), a metà fra la rievocazione delle fortunate sedie a schienale altissimo di Charles Rennie Mackintosh e le sedute da spiaggia del Mare del Nord Europa, Lazy Basketball è ormai la tua terza occasione di utilizzo della rete sintetica come supporto per lo schienale e occasione ludica – tra l’altro credo che il tuo primo lavoro per Campeggi sia stato proprio la panchina|amaca Siesta. Cosa puoi dirmi di questi due progetti?

 Emanuele Magini:  Siesta è un progetto nato al telefono, parlando con un amico di un concorso che richiedeva la progettazione di una seduta per esterni, ho pensato che sarebbe stato molto più comodo avere una seduta morbida, ad amaca, al posto delle classiche doghe. Ho mostrato l'idea a Claudio Campeggi, e ci siamo messi subito a fare una ricerca di reti.
Lazy Basketball nasce invece come prosecuzione di Lazy Football, continuando sul tema del gioco e dello sport in contesto domestico.
Le proporzioni poi la rendono un elemento di forte presenza scenica, ma di segno leggero, grazie alla linea sinuosa ma essenziale della struttura e alla smaterializzazione delle forme ottenuta con l'impiego della rete.

 Umberto Rovelli:  Infine, per concludere, vorrei segnalare il tuo recente Tutti santi giorni. In parte debitore del tuo precendente Calendarlamp – lampada a sospensione con motivo decorativo a frange strappabili – Tutti santi giorni è un progetto leggero e al contempo assai denso che mi ha colpito, come del resto accade sovente nei progetti più interessanti, per i vari livelli di lettura che se ne possono dare: ironia simbolica, fierezza laica, riflessione sociologica, memento di una condizione esistenziale (l'ineludibile ciclicità del nutrimento) di cui possiamo reperire richiami  06  fin dalla mitologia greca...

 Emanuele Magini:  Tutti santi giorni, nasce con la partecipazione alla mostra Foodmade, organizzata dal collettivo Padiglione Italia, in zona Lambrate durante l'ultimo Salone del Mobile 2013.
Posto il tema del cibo, come limite e universo del progetto, ho pensato a un calendario commestibile perché in esso mi è piaciuto il contrasto tra l'ordinaria semplicità dell'oggetto e la densità di significati e di simbolismo che in essi si concentravano.
La sacralità del cibo e dell'atto di nutrirsi, l'importanza del tempo come risorsa primaria e nostra ultima sostanza, il ritualismo, la simbologia cattolica. Tutto questo in un calendario da muro qualsiasi, che a uno sguardo distratto può sembrar uguale a tanti altri: l'assoluto sta nelle piccole cose...





Note al testo



 00  Il testo, ripreso dalla pagina web edita sul portale ADI Toscana La questione del minimalismo. AG Fronzoni (www.aditoscana.it/news/contributi_det.asp?menu=5&id=145) è un estratto del saggio di Vanni Pasca, Design negli anni novanta, pubblicato in: Fulvio Carmagnola, Vanni Pasca, Minimalismo. Etica delle forme e nuova semplicità nel design, Lupetti, Milano 1996.
 01  Marco Romanelli, Marco Romanelli talks about my work, Francesco Faccin - Industrial Design, maggio 2012 | www.francescofaccin.it
 02  A questo proposito si ricorda che l’autoproduzione – soprattutto sub specie di attività artigianale evolutasi poi in altro – ha avuto proprio nell’area di San Frediano a Firenze un bacino d’incubazione per molta produzione di design industriale del territorio.
 03  Una sintesi della «filosofia» aziendale di Alessandro Molinari è stata disponibile fino al 31 dicembre 2012 all'indirizzo dell'evento-web Nuovi Italians Crescono, resoconto dell'incontro condotto da Beppe Severgnini il 4 maggio alle 17.00 dall’Antiruggine di Castelfranco Veneto (Tv). Nella scheda di tale manifestazione si poteva leggere quanto segue: «Garage Design (Milano), nato dall’idea di Paolo Braguzzi, Tommaso Guerriero, Elisa Barbieri e rappresentata da Alessandro Molinari, è un atelier di produzione e un webshop di oggetti di design inediti, da produrre in piccole quantità. Grazie a un lavoro di talent scouting internazionale, qui si incontra chi crea progetti d’avanguardia con chi è alla ricerca di oggetti unici e speciali da acquistare. Il consumatore diventa «consumAttore», vero protagonista non solo dell’acquisto di un bene, ma della sua stessa realizzazione in un processo sostenibile completamente privo di sprechi, che da alle idee di valore l’opportunità di essere prodotte. Il webshop mostra i prototipi dei prodotti che possono essere acquistati. Una volta raggiunta la soglia minima di consensi che garantisce la sostenibilità economica della produzione compare l’icona "aggiungi al carrello".
Garage Design è insieme showroom virtuale, webshop e atelier di produzione per oggetti di design inediti: un luogo-modello, in cui si incontrano chi crea progetti d’avanguardia con chi è alla ricerca di oggetti speciali da acquistare. [...] Garagedesign continua la sua opera di talent scounting attraverso la promozione di bandi liberi, a cui ogni designer – ma anche architetto, artista, progettista in senso lato – può partecipare inviando un progetto, novità assoluta o già presentato, purché mai prodotto e lanciato sul mercato.
Ottimizzando il talento della rete, attraverso un’attività di crowdsourcing, Garagedesign è una piattaforma di incontro e dialogo tra designer, artigiano e consumatore, anzi consum-attore, dal momento che, in una logica di eliminazione degli sprechi, ogni oggetto viene prodotto solo su richiesta, ad un prezzo equo, che remunera il lavoro economico "reale" e non il plusvalore di un brand famoso. In questo modello di business si intravede anche la possibilità di un prezzo flessibile in base al gradimento del pubblico, ossia un’economia di scala autogestita dai consumatori.
Data la forza innovativa del concept e dall’obiettivo di fare sistema tra i vari punti di forza del made in Italy, spesso parcellizzati e dispersi, il sistema Garagedesign ha attratto l’interesse di alcune aziende, interessate a sviluppare bandi a tema, per creare un gruppo di lavoro creativo libero ma testato. La prima collaborazione in questo senso è stata presentata al Fuorisalone 2012: 18 progetti di cucine compatte, ergonomiche ed ecologiche progettare in rete per SCIC».
 04  Tra l'altro attribuendo al successo di vendite e di popolarità ottenuti dal prodotto nei primi due anni di produzione con l'azienda buona parte del merito della successiva ascesa professionale di Emanuele Magini.
 05  Il design come pratica domiciliare è uno delle numerose promesse du bonheur che come molte leggende metropolitane non ha né padre né madre ma è in grado di proliferare con velocità esponenziale. Fra le tante «narrazioni» di tale «transito» – inerente al tema anche se non attinenti specificamente il design – se ne segnala una televisiva assai efficace della SodaStream (prodotto che consente di realizzare acqua e bibite frizzanti direttamente a casa) che ha il merito di rendere manifesto come lo slittamento di funzioni a domicilio possa avere effetti a catena sul territorio (stoccaggio, distribuzione, ecc.).
 06  Come autorevolmente sostenuto da Jean-Pierre Vernant a proposito della spartizione del sacrificio fra uomini e divinità ordita da Prometeo. «Certo gli uomini ricevono le parti commestibili della bestia sacrificata, ma il fatto è che i mortali hanno bisogno di mangiare. La loro condizione è opposta a quella divina, non possono vivere senza nutrirsi di continuo. Gli uomini non sono autosufficienti, hanno bisogno di procurarsi risorse di energia dal mondo circostante, senza le quali deperiscono. Ciò che definisce gli umani è infatti proprio la necessità di mangiare il pane e la carne dei sacrifici, e bere il vino della vigna. Gli dèi non hanno bisogno di mangiare, non conoscono né il pane, né il vino, né la carne degli animali sacrificati. Vivono senza doversi nutrire, o meglio assimilano soltanto degli pseudonutrimenti, il nettare e l’ambrosia, cibi divini che donano immortalità.
La vitalità degli dèi è dunque di natura diversa rispetto a quella umana.
Quest’ultima è una sub-vitalità, una sub-esistenza, una sottospecie di forza: un’energia a intermittenza. Bisogna alimentarla in eterno. Non appena un essere umano ha fatto un qualche sforzo, subito si sente stanco, spossato, affamato. [...] Tutto quello che in un animale non è commestibile [in primo luogo le ossa], è anche ciò che non è mortale, l’immutabile, ciò che, di conseguenza, più si avvicina al divino. [...] Gli uomini sono costretti a nutrirsi di un pezzo di animale morto; il tratto di mortalità che li segna a partire da tale spartizione è decisivo. Gli umani sono, d’ora in poi, i mortali, gli effimeri, in opposizione agli dèi che sono i non-mortali. Dopo questa spartizione del cibo, gli esseri umani sono marchiati con il sigillo della mortalità, gli dèi con quello dell’immortalità». Jean-Pierre Vernant, L'universo gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Einaudi, Torino 2005, pp. 25-29.



Emanuele MaginiEmanuele Magini. (Arezzo, 1977). Nel 2003 partecipa alla undicesima Biennale Giovani Artisti del Mediterraneo di Atene. Dopo aver completato gli studi alla Bezalel Academy di Gerusalemme, si laurea in disegno industriale al Politecnico di Milano con una tesi sulla semiotica delle vacanze. Lavora presso numerosi studi di architettura e design come Albera Monti Associati e Studio Rotella occupandomi di progetti nazionali e internazionali per clienti tra i quali: Casinò di Campione d'Italia, Acqua Valverde, Campari, Banca Sella, Citroen. Mi sono occupato di scenografia e set design collaborando con Disney Italia e ho insegnato presso isituti privati modellazione tridimensionale computerizzata.
I suoi progetti hanno ricevuto premi e menzioni prestigiose a livello nazionale e internazionale e sono stati pubblicati in numerosi giornali e riviste. Nel 2009 vince il concorso Promosedia, l'anno successivo il concorso Il Rame e la Casa promosso dall'Istituto Italiano del Rame. Negli anni successivi si aggiudica il premio IF product design award, e il Good Design del Museo di Architettura e Design di Chicago. Sosia, progettato per l'azienda Campeggi, è stato inserito nell'ADI Design Index 2012, selezione per il Compasso d'Oro ADI. Nel giugno del 2013 riceve dalla Presidenza della Repubblica, il Premio Nazionale per l'Innovazione conosciuto anche come «Premio dei Premi».
Nel 2010 apre il Magini Design Studio. Attualmente è «cultore della materia» presso il Politecnico di Milano, collaboro e ho collaborato con numerose aziende tra cui: Heineken, Seletti e Campeggi, Bormioli Rocco, Present Time e Fiera di Verona.
www.emanuelemagini.it




luglio 2013 
Firenze / Arezzo-Milano 

Emanuele Magini / Grasshopper - rasaerba a pedali / 2009 / for SUNLAB09 / by  PRIMOAPRILE
I.

II.
Emanuele Magini / Simple chair - sedia /  2009 / for PROMOSEDIA
Emanuele Magini / Peace Smoking - posacenere / 2010 / by PRESENT TIME
III.

IV.
Emanuele Magini / L’erba del vicino è sempre più verde - pallone con indicatore stato di salute del manto erboso / 2010 / by PRIMOAPRILE
Emanuele Magini / Prima del primo - piatto ludico con funzione di passatempo in attesa della portata / 2010 / by PRIMOAPRILE</A>
V.

VI.
Emanuele Magini / Brunello - candelabro / 2010 / by PRIMOAPRILE
Emanuele Magini / Calendarlamp - lampada a sospensione con frange a strappo  quotidiano / 2010 / by PRIMOAPRILE
VII.

VIII.
Emanuele Magini / Glasses time - orologio con caratteri differenziati da esame dell'acuità visiva / 2010 / by PRIMOAPRILE
Emanuele Magini / Willy -   calorifero|stendi-panni / 2010 for IIR - COPPER AND THE HOUSE<br>Winner: Concorso «Il Rame e la Casa» 2010, Milano
IX.

X.
Emanuele Magini / Oscar - portaombrelli|svuota-tasche / 2010 / for ZANOTTA CRISTALPLANT<br>Menzione speciale: Concorso «Zanotta Cristalplant», 2010, Milano
Emanuele Magini / Lazy Football - sedia ludica / 2010-'12 / by CAMPEGGI
XI.

XII.
Emanuele Magini / Multilamp - piantana / 2010-'13 / by SELETTI
Emanuele Magini / India - piatto / 2011 / by WAHHWORKS
XIII.

XIV.
Emanuele Magini / Prisma - piatto / 2011 / by WAHHWORKS
Emanuele Magini / Vapor Hanger - umidificatore / 2011 / by WAHHWORKS
XV.

XVI.
Emanuele Magini / Wishes ballon - salvadanaio / 2011 / by PRIMOAPRILE
Emanuele Magini / Belvedere - panchina con schienale reclinabile / 2011 / for SUNLAB2011<br>Winner: SunLab2011, Rimini
XVII.

XVIII.
Emanuele Magini / Spring - maniglia|molletta multiuso / 2011 / for THE HANDLE OF TOMORROW | II Premio: Concorso «La maniglia di domani» 2010-'11 by Ghedini Group, Brescia
Emanuele Magini / Siesta - panchina|amaca / 2011 / by CAMPEGGI
XIX.

XX.
Emanuele Magini / Sosia - oggetto mutante: coppia di poltrone | divano | lettino riparato | proto-soggiorno… / 2011 / by CAMPEGGI
Emanuele Magini / Ipouf - seduta con sistema di amplificazione audio (wireless) / 2012 / by CAMPEGGI
XXI.

XXII.
Emanuele Magini / Zip - cestini per la raccolta differenziata / 2012 / by DEA PROJECT
Emanuele Magini / Secret Boxes - contenitori multiuso / 2013 / by SELETTI
XXIII.

XXIV.
Transformer - sistema di sedute variamente configurabile / 2013 / by CAMPEGGI
Emanuele Magini</A> / Lazy Basketball - seduta ludica / 2013 / by CAMPEGGI
XXV.

XXVI.
Emanuele Magini / Tutti santi giorni - calendario edibile / 2013 / for FOODMADE
Emanuele Magini / Tutti santi giorni - calendario edibile / 2013 / for FOODMADE
XXVII.

XXVIII.
Piero della Francesca / Storie della Vera Croce / 1452-1466, affreschi / Basilica di San Francesco - Arezzo
Selab / Pantone Chair - sedia pieghevole / 2010 / by SELETTI
XXIX.

XXX.
Tord Boontje / Shadowy - poltrona / 2008 / by MOROSO

 




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